Le ideologie e le appartenenze politiche sono qualcosa di rilevante. Da esse dipendono identità, storie, visioni del mondo, spesso inconciliabili. Difficile quindi non solo condividere ma anche solo comprendere cosa c'è alla base di alcuni comportamenti e dichiarazioni di Giorgia Meloni per chi di destra non lo è mai stato e, soprattutto, non è cresciuto anagraficamente e politicamente all'interno della cerchia più nostalgica e identitaria del partito neofascista italiano, quale è stato il gruppo militante romano del Msi degli anni Settanta e Ottanta nel quale si sono formati i vari Alemanno, Rampelli, Gasparri. Le recenti dichiarazioni o, meglio, omissioni di Meloni in occasione dell'anniversario della strage di Bologna e sui suoi autori e mandanti meritano però un tentativo di analisi supplementare.

Cosa c'è dietro tale reticenza? Cosa intende proteggere o salvaguardare il nostro presidente del consiglio negando la matrice neofascista della strage a dispetto della verità provata e confermata in fase giudiziale? Non certo il buon nome o l’onorabilità di Valerio Fioravanti o Francesca Mambro, riconosciuti protagonisti della stagione del terrorismo nero, a capo dei Nuclei Armati Rivoluzionari, una delle organizzazioni più efferate dell'eversione nera, organizzatori e autori materiali dell'omicidio di poliziotti, studenti, giudici. La natura eversiva della strage di Bologna è poi innegabile anche per Meloni, che non a caso si rifà in maniera generica «alla stagione del terrorismo». E al terrorismo, ma di diversa matrice, guardano le tesi negazioniste supportate da depistaggi e ipotesi  di presunte responsabilità palestinesi. 

La strage di Bologna non riguarda direttamente l'Msi, la sua storia e i suoi esponenti. La giovanile vicinanza-militanza di Fioravanti al partito della fiamma e di Mambro nel Fuan erano nel 1980, anno dell’attentato bolognese, lontane e remote origini. Negare la matrice neofascista della strage alla stazione di Bologna non è dunque finalizzato a salvaguardare la storia e la memoria del Msi, del quale ci dovrebbe essere tutto l’interesse a ribadire che con la stagione del terrorismo nero non ebbe nulla a che vedere. A metà degli anni settanta il Partito comunista ci mise un po’ a comprendere la reale matrice di sinistra del terrorismo rosso ma, una volta metabolizzato lo shock, fu tra i più duri nel contrastarlo e mai si sarebbe sognato di sconfessare una delle tante sentenze che decretarono le responsabilità degli esponenti delle varie organizzazioni comuniste combattenti.

Fra la presidente del Consiglio, il Movimento sociale e il fascismo italiano permane, in maniera evidente, un nodo identitario complesso ed irrisolto. Quando Cossiga sconfessò per primo la matrice neofascista dell’attentato bolognese, il quotidiano del Msi, allora guidato da Pino Rauti, titolò: «Cossiga: Chiedo scusa al Msi». E lo conferma la riscrittura della verità giudiziaria in favore di Fioravanti e Mambro da parte di Marcello De Angelis, ex senatore di Alleanza Nazionale, ora responsabile della comunicazione istituzionale della Regione Lazio, con alle spalle un connubio politico e familiare con l’estrema destra eversiva al punto da essere stato condannato per associazione sovversiva e banda armata. Se De Angelis è a conoscenza di una verità alternativa ha il dovere di denunciarla alle autorità, non sui social.

Quello che le ostinate e omissive dichiarazioni di Giorgia Meloni cercano di difendere e tutelare è dunque non la storia del Msi, che in più occasioni ha riscritto a suo uso e consumo ma, incredibilmente, il buon nome e l'onore del fascismo e del neofascismo italiano. I quali – nonostante tutti i crimini, le stragi, gli attentati, gli assassini di cui si sono resi protagonisti - non possono essere infangati dal coinvolgimento nella strage di Bologna. E allora la presidente del Consiglio avrebbe il dovere di spiegare cosa c'è da difendere e di onorevole in questa storia.

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