Era da vent’anni che non andavo a una manifestazione. Siamo in tanti così: prima di Genova 2001, le manifestazioni avevano un carattere mediamente più ostile, confrontational, per usare una parola efficace che vuol dire conflittuale ma non proprio, quel conflitto che si ferma prima dello scontro fisico. Eppure avevamo meno paura di andarci. Era il conflitto di cui ha bisogno la politica per agire, per mettere in agenda i temi e prendere in considerazione le istanze di cambiamento.

Dopo Genova le cose sono cambiate, ma non subito, ci è voluto un po’ per capire e introiettare quello che era successo, e questo “po’” di tempo, questo iato di chiarezza – dovuto anche ai tempi della giustizia italiana, e qui si dimostra come giustizia e democrazia siano strettamente connesse – ha permesso che il dissenso si affievolisse in forme di protesta più timide e ammansite, più simboliche.

Il pentolone

A Genova non ci sono stata per un pelo: avevo 17 anni, ero impegnata ma non troppo, ci sarei andata se ci fosse andato il mio migliore amico, che aveva il padre che militava in Rifondazione comunista e ci disse di non andare perché aveva un brutto presentimento. Conoscendo la città, non avevo nessuna voglia di trovarmi in quelle strade strette e labirintiche pressata fra la gente. Anche se da Milano eravamo andati perfino a un corteo a Roma, Genova mi sembrava inquietante e poco adatta.

Dopo Genova, quelle classiche proteste studentesche – che però erano su temi specifici, per esempio contro i finanziamenti pubblici alle scuole private – diventarono sempre più generiche, nel senso che portavano avanti tutti i temi e nessuno insieme: la globalizzazione, la Palestina, il diritto allo studio, e chissà che altro.

Tutto in un pentolone che mai includeva i temi femministi. Siamo all’inizio degli anni Duemila, la terza ondata a questo punto è stata soffocata da due decenni di tv commerciali e di stereotipi vari, la donna ipersessualizzata (le veline col seno enorme tirato su e schiacciato in top piccolissimi), la manager che riesce a fare tutto, le mamme che lavorano.

A Milano negli anni 2000-2005 tutto taceva e si viveva nel migliore dei mondi possibili, Britney cantava coi codini, Britney era vergine, poi Britney era una puttana, ma noi al liceo classico avevamo i maglioni infeltriti e protestavamo per cause astratte come i lavoratori sindacalizzati, senza sapere che molti di noi e soprattutto molte di noi mai sarebbero stati difesi da un sindacato, neanche se mobbizzate per maternità, neanche se pagate meno degli uomini, anche perché in molte saremmo state precarie.

Cortei generici

ANSA

C’è stata una buona epoca per il Pride, che per sua natura è un genere di protesta diverso, in cui farsi vedere ha di per sé una valenza politica e confrontational. «Io ci sono, esisto, e ti obbligo a guardarmi per come sono», questo è il concetto, che non è applicabile alla lotta femminista, perché noi siamo visibili ovunque, da sempre, ma costrette comunque a vari gradi di sottomissione, a seconda del periodo e dei decenni più o meno accentuata.

Non credo che sia lineare il percorso di emancipazione delle donne, ma piuttosto ricorsivo, qualche passo avanti e qualche passo indietro, sperando che il bilancio generale storico non finisca in rosso.

La protesta contro i finanziamenti alle scuole private è l’ultima manifestazione che ricordo con uno scopo concreto. Poi c’è stata quella per non cambiare l’esame di maturità, che comunque è cambiato, ma almeno anch’essa era concreta. Dopo quel periodo, si confondono nella mia memoria una serie di cortei genericamente di “sinistra”, ma di cui non ricordo più le istanze, a cui non ho partecipato.

Poi le manifestazioni commemorative o simboliche, come quella del primo maggio. Si capisce da questa storia che non sono un’attivista, che mi trovo più a mio agio con il tempo del ragionamento e della scrittura, ma che non ci penserei due volte a manifestare per qualcosa che mi convincesse davvero, e anche su questo penso di essere come tanti.

Non una di meno

Arriviamo a sabato, 25 novembre 2023: tanti hanno sentito questa chiamata a scendere in piazza, questo senso rinnovato; tanti su Instagram dicono basta semplificare il pensiero e protestare tramite slide con la grafica intonata all’identità visiva del profilo, basta teorizzare senza mai mettere davvero piede né in strada né “dentro” ai testi teorici, che sono fra di loro sanamente contraddittori, dialettici, aperti.

Sono stata più di un’ora seduta sul muretto della fermata della metropolitana Circo Massimo di Roma, ad aspettare degli amici, e ho osservato tutte le facce che salivano le scale per immettersi nella folla: molte donne ovviamente, molte donne con bambini in età di scuola elementare, molti uomini – a occhio ho stimato un 30 per cento.

C’è una popolazione che va alle manifestazioni come abitudine, una popolazione che stimo e che reputo impegnata, a cui non appartengo e a cui non appartiene la maggior parte dell’Italia, una popolazione che in alcune città come Milano si è quasi estinta, perché sono stati chiusi tutti i luoghi in cui si ritrovava e in cui si rinnovava nelle nuove generazioni, per esempio i centri sociali.

A Roma, una città che conosco meno ma in cui al momento vivo, ho ritrovato questo popolo, questa tradizione: sarà il tipo di lavori che si fanno a Milano che portano all’individualismo, in contrapposizione ai lavori più “culturali” della capitale; saranno i grandi numeri, non so. Ma le persone che vedevo salire le scale dalla metropolitana non erano i sempre-impegnati, erano un campione estremamente variegato di popolazione.

Una conversazione ascoltata per caso: due donne e un bambino sugli otto anni. Forse una madre e una zia. Una spiega al bambino: «Sai perché diciamo "Non una di meno?”. Perché gli uomini, quando si arrabbiano…» - la zia la corregge: «Alcuni uomini». Si accordano per questa spiegazione: «Alcuni uomini, quando si arrabbiano, visto che sono più forti, fanno del male alle donne. E non devono farlo più».

Marciare per dei princìpi

Sono salite dalle scale tante ragazze con cori un po’ incazzati. Mi hanno dato un po’ speranza. Tanti uomini di mezza età con i bambini piccoli. Due con il cane (bisogna volergli male ai cani per portarli in quella che per loro è una sovrastante bolgia).

Mi sono trovata per caso proprio in testa al corteo, perché ho tagliato e sono risalita dal Circo Massimo a metà. Ero con due uomini gay, sono stati redarguiti: siete pur sempre uomini, non mettetevi sempre in mezzo. Mi sono girata terrorizzata a cercare con lo sguardo mio marito, che è pure etero, svettava altissimo coi capelli biondi, ma fortunatamente stava varie file più indietro. Gli ho detto «be’, vieni qui». Lui mi ha guardato come a dire che solo io potevo suggerirgli di superare delle bambine (è vero, ci separava un gruppo di bambine).

È stata una bella manifestazione. Hanno partecipato tutti, non abbiamo chiesto niente, niente di concreto. Abbiamo cantato che il nostro grido era altissimo e feroce, ma mentre cantavo non mi sentivo molto feroce. Mentre cantavo mi sentivo già pensare: sì, ma ora?

Ora almeno la nostra presidente del Consiglio sa che ci sono 500mila persone che hanno qualche interesse a un programma di riduzione dei femminicidi. Ma sto concretizzando io: in realtà non abbiamo chiesto nessun programma. Nessun piano decennale trasversale ai partiti, come quello che hanno in Svezia dal 2016, per prevenire la violenza.

I detrattori dell’emancipazione femminile dicono che non serve a prevenire i femminicidi. Io continuerò a scriverne. Ma ho il chiaro sentore che tornerà a essere una cosa di nicchia, ho il chiaro sentore, per citare Piccolo, che tutti si siano già rotti le palle. Insomma è stato bello. Ma ho avuto l’impressione di marciare in modo simbolico, per dei princìpi.

I princìpi sono importanti, ma ora vorrei lottare per degli interessi. Delle cose piccole, meschine. I bagni pubblici. Una programma per aumentare il tasso di impiego femminile. L’educazione affettiva obbligatoria. Sceglietene una voi, io in piazza ci torno.

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