In certi circoli della destra si era diffusa una certa grandeur dopo la vittoria elettorale dello scorso anno. Pareva finalmente propizio il momento per la costruzione di una élite di destra, un distillato culturale di conservatorismo dalle sfumature eleganti.

Ci si aspettava una fioritura di fondazioni, centri culturali, case editrici, riviste, pamphlet raffinatissimi, una accademia rinnovata. E invece, nemmeno un anno dopo, il libro di destra più venduto è quello autoprodotto del generale Vannacci e i presunti protagonisti della nuova egemonia culturale sono ridotti alla difesa dell’autore col coltello tra i denti.

Non si tratta certo di proteggere D’Annunzio, Montale, Prezzolini o Ratzinger dalla censura della sinistra, ma di rivendicare le tesi estremistiche, la prosa incespicante, i concetti sempliciotti e tribali, il lessico da caserma, la posa da deep web di un alto ufficiale il cui comportamento, sul piano istituzionale, suscita più di un dubbio. Insomma dell’alta cultura, e dell’organizzazione ad essa necessaria, per combattere l’egemonia del gramscismo con i suoi stessi mezzi nemmeno l’ombra.

Siamo lontani persino dalla più radicale, ma sempre presa a modello, Francia: a Parigi signori come Zemmour, Onfray, Finkielkraut e Bellamy dimostrano di saper scrivere e padroneggiare concetti storici e filosofici. Invece la compagnia della destra culturale italiana cede subito al richiamo della foresta e si immola per un generale che vuole fare politica e che, per altro, mette anche in difficoltà le forze della maggioranza con i suoi argomenti brutali. Allora cosa resta del progetto della contro egemonia culturale dei conservatori? Qualche posto in televisione, un manipolo di nomine nei musei e negli enti culturali, qualche denaro per le fondazioni. Non rimane, insomma, che l’ordinaria amministrazione del potere.

Allora forse sarebbe stato meglio calibrare le ambizioni alla realtà: non la contro egemonia di gruppetti che pretendono di fare alta cultura; non una destra chic e dandy; non l’alterigia di coloro che vorrebbero essere chiamati intellettuali; ma una rivendicazione politica dei concetti semplici espressi dal generale Vannacci che tanto successo riscuotono nel pubblico. Si faceva prima a dire che quelle idee tutto sommato non dispiacciono alla maggioranza della popolazione o che, in ogni caso, questa maggioranza è disposta a tollerarne la rivendicazione e a sostenerne la circolazione.

Sarebbe stato più onesto che tentar di nobilitare il caso Vannacci come parte di un progetto di contro egemonia o come reazione alle tendenza censorie della sinistra. La destra pertanto torni a ciò che sa fare: rivendicare e alimentare la cultura popolare, scagliarsi contro i progetti dirigisti e pedagogici del progressismo, ma lasci perdere i progetti intellettuali di grande ambizione.

In primis perché nei circoli vicini ai partiti della maggioranza mancano quantità e qualità per realizzare un progetto di quel tipo e in secondo luogo perché all’elettorato di destra non interessa nulla dell’egemonia culturale. A quella porzione d’Italia basta il bestseller fatto in casa del generale Vannacci. Con buona pace dei gramsciani di destra.

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