Mercoledì la Federal Reserve ha confermato la normalizzazione della politica monetaria preannunciata e iniziata nei mesi scorsi. Ha aumentato di 0,5 i tassi che controlla e ha ribadito che un altro rialzo di mezzo punto è previsto entro le prossime due riunioni, cioè entro luglio.

Il corridoio dei tassi sui dollari interbancari a breve è ora fra lo 0.75 e l’1 per cento. Ha inoltre fissato al primo giugno l’avvio della riduzione dei titoli che detiene in seguito al quantitative easing, precisando il criterio che seguirà nell’evitare di rinnovarli a scadenza.

Non si tratta di politica restrittiva, ma di un graduale ritorno alla normalità che potrebbe concludersi verso la fine dell’anno prossimo. Per ora la Fed è riuscita a procedere senza sorprendere i mercati, preannunciando le sue mosse e rimanendo credibile.

Il che è essenziale per il successo di un’operazione delicata: l’uscita da anni di politica espansiva con tanta liquidità da riassorbire e un considerevole rialzo dei tassi che, se non ben ritmato e preannunciato, può far cadere la borsa e inceppare il credito.

La speranza è che nel corso della normalizzazione le aspettative di inflazione si fermino e che ciò avvenga senza che il cammino dei tassi debba andare oltre un livello “normale”. Evitando cioè una vera “stretta monetaria” che sacrificherebbe crescita e occupazione.

La manovra è facilitata dal buon ritmo con cui da più di un anno cresce il Pil Usa.

Ultimamente c’è stato però un arresto della crescita e si sono acuite le minacce globali dovute alla guerra ucraina e al rallentamento della Cina, causato anche alla pandemia.

La Fed ha giustamente evitato di cambiar rotta ma ha usato toni meno duri nel comunicato smentendo chi prevedeva l’annuncio di rialzi più rapidi nei prossimi mesi.

La borsa ha dunque reagito con un rialzo che ha contagiato anche i titoli europei. Persino i tassi sulle obbligazioni hanno avuto un piccolo ribasso che sta ora rientrando.

Sul fronte europeo

La politica monetaria europea vede aumentare la sua divergenza da quella d’oltre oceano. Da noi i tassi sulla liquidità interbancaria sono ancora negativi, quasi un punto e mezzo sotto quelli sui dollari. I rendimenti dei titoli di Stato tedeschi a due anni sono di ben 2 punti e mezzo più bassi di quelli dei titoli del Tesoro Usa con eguale scadenza. Nei decennali la differenza è di poco inferiore.

Negli ultimi tre mesi, a cavallo della guerra, anche i tassi europei sono cresciuti ma le differenze con gli Usa sono aumentate, soprattutto sull’orizzonte dei 2 anni, e il tasso di cambio dell’euro si è svalutato del 7 per cento contro dollaro.

D’altra parte è evidente che il mercato sconta la virata che anche la Bce ha preannunciato. Speriamo che sia in grado di condurla con altrettanta chiarezza della Fed, senza guardar troppo all’ultimo dato che arriva, spiegando che non si tratta di una stretta ma di una graduale normalizzazione, la cui opportunità è aumentata dal crescere dell’inflazione ma che sarebbe comunque necessaria.

E lo spread italiano? Il rendimento dei titoli decennali del Tesoro è di 200 punti base più alto di quello dei titoli tedeschi, cresciuto di quasi 50 punti negli ultimi tre mesi. Sulla scadenza più breve, due anni, lo spread è di circa 60 punti, poco più di tre mesi fa.

Quando i tassi salgono, come stanno salendo, aumenta anche lo spread, come ha detto Draghi nell’ultima conferenza stampa. La ragione è soprattutto che il nostro grande debito diventa relativamente più rischioso, per chi lo detiene, quando il costo di indebitarsi sale. È d’obbligo la prudenza nelle decisioni di bilancio.

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