Nella politica verso la Libia il governo Draghi sta segnando uno scarto evidente rispetto al passato, non tanto per aver cambiato linea politica quanto per il tentativo di prendere decisioni coerenti con gli indirizzi strategici.

Se uno dei classici refrain della politica estera italiana è il costante attendismo, il tentativo di non ledere gli interessi altrui e di lasciare una porta aperta a un dialogo con tutti, Mario Draghi sembra meno avvezzo a queste storiche abitudini della diplomazia italiana. È certamente una questione di storia ed esperienza personale ma anche della forza derivante dall’ampio supporto di cui gode il suo governo in parlamento e di cui non beneficiavano certamente i suoi predecessori.

La fase 2 

Le indiscrezioni di ieri circa il nuovo piano di Draghi sulla Libia che prevederebbe l’aumento dei nostri soldati in Libia, specialmente al sud, e la volontà di potenziare la missione europea Irini con compiti di addestramento della guardia costiera libica, seppur poi smentite dalla Difesa, sembrano testimoniare come il governo italiano sia passato da una fase attendista, in gran parte responsabile dello scivolamento di Tripoli verso Ankara, ad una decisamente più proattiva.

Certamente l’attuale contesto sembra favorire l’azione italiana ed europea più di prima. Biden vede nell’Europa un partner a cui affidare una divisione dei compiti nel nostro vicinato, sperando che vi siano veri seguiti al tanto parlare di autonomia strategica europea, interpretandola naturalmente in senso non anti-americano.

Alcuni degli attori più influenti in Libia sono stati richiamati al rispetto di quanto sancito in sede Onu sul paese, altri a cominciare da Egitto e Turchia, hanno compreso che ogni passo in avanti ulteriore avrebbe comportato un rischio alto di scontro armato e hanno riaperto canali di comunicazione. Il decrescere della tensione internazionale attorno alla Libia, una sorta di pausa strategica, ha permesso proclami importanti alla conferenza di Berlino di questa settimana.

La richiesta a gran voce e sottoscritta da tutti del ritiro dei mercenari stranieri presenti sul terreno libico (soprattutto i russi del Wagner Group e i siriani alle dipendenze dei turchi) dovrà essere in qualche modo incentivata per non restare puramente sulla carta.

Questa situazione rimanda alla questione più ampia delle relazioni della Russia con l’Occidente. Con gli Usa ci sono state delle aperture importanti la settimana scorsa nell’incontro Biden-Putin. Il Cremlino dovrà in qualche modo tenere conto della nuova amministrazione americana e di come il clima sia cambiato, così come dovrà farlo la Turchia membro Nato, che rischia sicuramente una sovra-estensione dei propri impegni nell’area mentre l’economia in crisi vacilla.

In ogni caso in questo scenario l’Italia sembra curare con maggiore attenzione i propri interessi e prendere posizioni più attive. Draghi comprende che se non fai in qualche modo parte del gioco sei totalmente escluso dal tavolo delle trattative. Anche per questo ha stabilito una distanza più netta da paesi come la Turchia, Russia e Cina.

Nonostante una maggiore assertività politica e un più spiccato decisionismo Draghi sa bene che l’Italia continua ad avere bisogno di collaborazione con gli altri per risolvere i propri problemi. Difficile pensare che – mentre chiediamo il ritiro di turchi e russi- una maggiore presenza italiana in Libia possa essere tollerata se non all’interno di un quadro multilaterale più ampio.

Il ruolo della Turchia

Russian President Vladimir Putin, right, shakes hands with Turkish President Recep Tayyip Erdogan on the sideline of the conference on Libya at the Chancellery in Berlin, Germany, Sunday, Jan. 19, 2020. German Chancellor Angela Merkel hosts the one-day conference of world powers in Berlin to discuss efforts to broker peace in Libya.(Turkish Presidency Press Service via AP, Pool)

Bisogna cercare di costruire con i partner europei e il supporto americano un nuovo cappello di legalità nel quale alcune forze straniere potrebbero rimanere sul terreno libico ma all’interno di una cornice internazionale legittima e nuova.

Ciò permetterebbe ai turchi, che rivendicano a buona ragione il ruolo di vincitori, di lasciare osservatori e addestratori all’interno di un contesto di una missione più ampia che possa aiutare i libici a fare la riforma del settore della sicurezza o che faccia più semplicemente monitoraggio degli accordi sanciti e aiuti nel preparare le prossime elezioni.

Naturalmente, Erdoğan dall’altra parte dovrebbe rinunciare ai combattenti irregolari, smettendo di arroccarsi su accordi fatti nel recente passato da posizioni non paritarie tra Ankara e il governo libico sotto attacco di Haftar.

I contractor russi della Wagner sarebbero pronti a lasciare la Libia solo nel caso in cui anche i turchi se ne andassero, secondo quanto detto dai russi stessi.

Anche sulla relazione con la Russia una Europa più assertiva sembra profilarsi all’orizzonte se si ascoltano le parole di Angela Merkel a conclusione del Consiglio europeo che ha insistito sulla necessità di trovare "un modus operandi" per dialogare e fare progressi con Vladimir Putin su molti dossier, tra i quali proprio la Libia.

La situazione libica, così come quella migratoria intrinsecamente connessa, non si risolve a Tripoli o a Bengasi, ma si risolve ancora una volta nelle capitali internazionali. E la Libia sembra essere un banco di prova di questo nuovo abbozzato multilateralismo nel quale l’Italia sembra aver ritrovato vivacità.

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