Da tempo il capo dello stato sta parlando a un paese che non pare granché attento. Su due temi in particolare, entrambi di rilievo. Il primo è che nonostante voci e pressioni non è disponibile a un secondo mandato. L’altro, più complesso, sta nell’asse del discorso letto il 2 giugno, festa della Repubblica, nel cortile di un Quirinale addobbato. Tornare lì, a quel testo, fosse solo per non far cadere nel nulla l’intervento forse di maggiore peso dell’intero settennato non pare inutile. Al fondo si è trattato dell’orazione più “politica” che un presidente della Repubblica si sia concesso in settant’anni e oltre di democrazia.

E allora sul merito: quel discorso è il frutto di un tempo malato e di una democrazia oggi più fragile di quando Sergio Mattarella ha fatto il suo ingresso nel palazzo del Quirinale. Era il febbraio del 2015. Voglio credere nasca da qui, da questa doppia cognizione, l’insistenza a saldare la Repubblica alle persone con quel messaggio esplicito: la democrazia nasce e si consolida dal basso. Non può rimanere ostaggio di sentimenti transitori o pulsioni orfane di una radice nella vita di protagonisti e testimoni.

Avessi la dote che non ho e sapessi fornire una parafrasi dell’intero testo lo tradurrei così: «Dopo le elezioni del 2018, concluse senza alcuna maggioranza espressa, abbiamo affrontato l’incertezza della politica e un anno fa la brutalità del male. Ce l’abbiamo fatta e siamo qui perché alle spalle nostre si è consumata una vicenda – una grande vicenda collettiva, di popolo – che ci ha resi robusti anche quando dinanzi a noi si sono manifestate improvvise le fragilità più acute. Ma poiché abbiamo compreso sulla nostra pelle il rischio che talune fragilità possano soverchiare quella nostra forza e travolgere assieme a noi quella parabola, il mio appello alla generazione ultima, quella che ancora studia e si prepara alla vita, è di assumersi il peso di scrivere da subito la storia repubblicana del tempo che deve arrivare. Perché non abbia domani a trovarsi disarmata, impreparata, dinanzi a nuovi traumi improvvisi e sia in grado di affrontarli non già e solo con la storia già scritta, ma con quella ancora da scrivere».

Un’arringa laica

Sergio Mattarella questa sua arringa laica l’ha costruita con la precisione dell’orafo, o se preferite del pasticcere che conosce il dosaggio degli ingredienti e la successione del loro impiego. È partito dai lutti, dalle tragedie racchiuse nel ‘900 per dar conto della scelta repubblicana promuovendola a epilogo di una unificazione del paese che la monarchia aveva concorso a slabbrare. Per quella via ha riconciliato la Repubblica a donne e uomini in carne e ossa (a «quelli che hanno letto un milione di libri e quelli che non sanno nemmeno parlare» per citare il De Gregori ripreso in quella giornata), spiegando perché la riscossa dopo le macerie fosse stata opera di giustizia, liberazione, primato dei singoli, e con quelli di partiti e sindacati citando subito dopo altre fatiche. Il sangue sui treni e nelle stazioni, le vittime simbolo di uno stato resistente: poliziotti, magistrati, politici, giornalisti, un sindacalista genovese.

Ha rammentato i volti affranti del Polesine, i giovani infangati della Firenze alluvionata, e il Belice e il Vajont, il Friuli e l’Irpinia. Ha colorato la Repubblica di una carica umana a presidio della pace sino all’appello a colmare i vuoti rimasti: le distanze incarnate dai fragili, una parità dei generi tuttora lontana dal farsi legge rispettata. E ancora, le riforme: quelle capaci di fondare una costituzione materiale: la salute, la cura, la scuola, il lavoro, le famiglie. Tutto incastrato con sapienza nell’impresa collettiva di una nazio

ne che dopo il Risorgimento e la Resistenza, con la Costituzione ha visto compiersi il terzo atto di una statualità difficile. Impresa, e siamo a noi, destinata a cercare nel dopo – tra il digitale e l’ecologico, uno spirito di umanità e l’Europa – la sua prossima frontiera, e quindi l’appello alla generazione entrante perché assuma su sé, e per sé, il compito di scrivere la storia, ma non quella di una “seconda” o “terza” Repubblica” (sic). No, quella di uno stato modellato su esempi da custodire assieme a capitoli da immaginare, scrivere, lasciare in dote a quanti arriveranno poi.

La chiave di un mandato

Credo che più o meno questo sia ciò che ha detto il 2 giugno il presidente. Nello stile che gli è proprio, certo, ma senza celare la consapevolezza per quanto è avvenuto in anni recenti e la volontà di indicare una rotta per il dopo. La si può leggere come una denuncia o il segno di un allarme da condividere con chi è chiamato a rispondervi? Penso di sì, che non vi sia una forzatura nel pensarlo e nello scriverlo perché dentro e dietro le righe e i rimandi di quelle frasi, si può cogliere la chiave di un mandato che ha sopportato e supportato due eventi, ciascuno a modo suo, unico e, vogliamo sperarlo, irripetibile.

Il primo è stata, appunto, l’impasse seguita alle elezioni del 4 marzo 2018. Con quella percentuale imprevista che ha premiato il Movimento di Grillo e Casaleggio. Per la prima volta nella storia della Repubblica a prevalere nelle urne è stata una formazione non attrezzata, non ancora almeno, di una classe dirigente che in quel contesto offrisse garanzie solide se incaricata di un potere effettivo, quello esercitato e da esercitare.

Problema enorme in una democrazia della rappresentanza dove il capo di uno stato scosso dal terremoto elettorale si è trovato a riconoscere e dar corso a quella anomalia e questo Sergio Mattarella ha fatto avendo a cuore la tenuta dell’ordinamento e di un sistema che andava comunque preservato. Ha visto così la luce il governo giallo-verde, con un impegno diretto del “Colle” per consentire alla volontà di parte significativa del popolo di vedersi riconosciuta e all’avvocato di quello stesso popolo di varcare il portone di palazzo Chigi. Tutto nel rispetto delle regole proprie di una democrazia uscita indenne da una strettoia senza precedenti.

L’altro evento, assai più drammatico, è coinciso coi mesi della pandemia. Un paese recluso, i morti, le bare nella notte di Bergamo, l’economia piegata, due anni di scuola appaltati alla creatività di docenti straordinari, l’incubo di nuove disuguaglianze. Tutto fino alla corsa al vaccino, i desideri di ripresa, le conferme della scienza. Il Colle in questo caso ha intuito il bisogno di ancorare i sentimenti di milioni di cittadini a una speranza di normalità, di cura e ritorno alla vita. Dunque, elezioni senza uno sbocco, vinte da una forza acerba nell’élite. Poi la devastante pandemia a scuotere certezze sul diritto alla vita, all’uscire di casa, recarsi al lavoro, curarsi per tempo.

Questo è stato il settennato di Sergio Mattarella: una prova unica, quasi impossibile, per le difficoltà esplose e i nodi da sciogliere. Ma proprio la coscienza dei pericoli corsi da una democrazia che non è data una volta e per sempre credo abbia spinto il capo dello stato ad andare oltre i confini del protocollo, quello politico, per dare spazio alla richiesta più pressante che il vertice delle nostre istituzioni sa di dover rappresentare: scavare da ora fondamenta profonde dove piantare i pilastri di una Repubblica attrezzata a nuovi eventuali urti. E allora mi piace pensare che ai ragazzi strizzati in giacche per l’occasione, con le mascherine incollate al viso, la voce del capo dello stato abbia chiesto questo.

Non glielo ha “detto”, glielo ha “chiesto”, e fa differenza. Ha chiesto loro di impadronirsi ora della vicenda incredibile che battezziamo Repubblica, ma infine e soprattutto li ha invitati a non lasciare per nessuna ragione che la storia del dopo possa sfuggire alla loro volontà. Ecco perché sarebbe giusto se di questo 2 giugno destinato a restituirci la vita rimanesse il dialogo a distanza tra “il” presidente e i ragazzi che lo ascoltavano dal fondo del cortile d’onore. Quanto alle altissime autorità accomodate nelle primissime file, la semplice speranza è che un discorso così non lo abbiano soltanto applaudito. Lo abbiano compreso.

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