La crisi ambientale è la più drammatica sfida del nostro tempo, quella in cui si decide il futuro dell’umanità. A partire da questa considerazione, come valutare i risultati della Cop26? Come inadeguati, senza alcun dubbio. Ma questo giudizio potrebbe essere ingeneroso, se guardiamo invece ai protagonisti della conferenza, alle forze in campo: gli stati nazione, i rappresentanti di 197 governi del mondo.

Con sistemi politici molto diversi, differenti livelli di sviluppo e quindi esigenze contrastanti, e un grado diverso di esposizione al collasso dell’ecosistema: dai paesi che rischiano di essere travolti in pochi anni, a quelli che la vedono come un problema di medio periodo (come noi europei), a coloro che dal surriscaldamento della Terra potrebbero addirittura ricavare vantaggi.

Stante questo coacervo di posizioni, liquidare i passi avanti ottenuti in due settimane di vertice come «il solito bla bla bla» rischia di rivelarsi una scorciatoia populistica, poco utile. Si tratta piuttosto di capire come fare a ottenere di più. Le partite da giocare sono due: una economica e una politica. Si intrecciano fra loro. E chiamano in causa anche il ruolo dell’Europa.

Il ruolo dell’Europa

Innanzitutto, nell’economia si tratta di anteporre la tutela dell’ambiente alle logiche del profitto. Come in fondo è già avvenuto in altri ambiti, almeno in parte, si pensi all’affermazione del diritto universale alla salute, nel Novecento. Ovviamente non mancano le resistenze, prevedibili e naturali nelle economie capitalistiche: per stare all’Italia, il presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, ha dichiarato che abbiamo bisogno di più tempo per realizzare la transizione energetica.

È innegabile però che da qualche anno si stia facendo strada una consapevolezza nuova, nella politica, fra i cittadini, anche nel mondo dell’impresa – si pensi alla crescita esponenziale della finanza verde. Oggi (quasi) nessuno più pensa, per fortuna, che il libero gioco delle forze di mercato e la «distruzione creatrice» del capitalismo introdurranno automaticamente dei correttivi tale da evitare la catastrofe ambientale. Più complicata è invece la partita politica.

Se è evidente a molti che lo stato nazionale non basta più, stenta a emergere un’alternativa. Basti pensare che gli stessi impegni della Cop26 non sono vincolanti per i singoli governi, se non sul piano morale, dato che non vi sono meccanismi sanzionatori. La dichiarazione congiunta Usa-Cina ha dato l’idea di quale potrebbe essere una soluzione: i paesi più forti fanno da motore, spingendo con la loro forza economica e politica gli altri paesi ad accettare i cambiamenti necessari.

Fare da guida

La seconda strada, forse la più corretta ma che al momento appare molto più difficile, è invece quella di creare dei meccanismi sanzionatori e vincolanti, su base multilaterale, attraverso negoziazioni che coinvolgano tutti i paesi, un po’ come si è fatto con il Wto per il commercio mondiale.

Queste due strade, o soluzioni, non sono alternative: anzi possono rafforzarsi a vicenda (ce lo insegna anche la storia). Forse anche per questo, occorre chiedersi qual è il ruolo che può svolgere l’Unione europea.

Ebbene: ha il dovere di essere una delle grandi potenze che si pone alla guida della transizione energetica, accanto a Usa e Cina (peraltro ne ha più di altri le capacità tecnologiche); ma deve anche favorire, in fondo per la sua stessa natura ed esperienza, l’approccio multilaterale di progressiva integrazione fra gli stati-nazione.

Per riuscire in questo duplice ruolo, davvero cruciale, è necessario però che l’Europa cambi: deve superare l’approccio intergovernativo, tuttora prevalente anche al suo interno, dandosi una struttura federale e quindi una chiara guida politica. In questo senso, la questione ambientale e l’integrazione europea si tengono insieme. I cittadini e le forze politiche dovrebbero averne maggiore consapevolezza.

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