Giuseppe Conte, «perse la modestia, la furbizia del provinciale» e «si trasformò come un imperatore che credette di poter fare l’imperatore di Roma pur essendo un ispanico, un provinciale, un burino, un ciociaro». Così la firma prestigiosa di un autorevole quotidiano ha descritto la parabola dell’ex presidente del Consiglio.

Non poteva essere espresso meglio il fastidio che Conte ha provocato in quella parte della classe dirigente che si sente sempre al centro, inamovibile e garantita come una casta. Per costoro il successo dei 5stelle, guidati a palazzo Chigi da un parvenu, non rappresentava altro che una nuova calata dei barbari: una sorta di novelli “Hyksos”, come diceva  Benedetto Croce quando discuteva con il suo amico Giustino Fortunato della presa del potere da parte dei fascisti.

Ma giustamente quest’ultimo ribatteva che non si era trattato di una invasione barbarica poi scomparsa senza lasciar traccia, bensì di una “rivelazione” dell’animo italico. O, per usare le parole di Piero Gobetti, il fascismo non era altro che l’autobiografia di una nazione.

Cosa resta dei Cinque stelle 

I Cinque stelle forse spariranno, dilaniati da conflitti interni che nemmeno il leader incontrastato riesce più a controllare, e dalla perdita della loro identità e “mission”. Ma va almeno riconosciuto che hanno incanalato sul binario della democrazia e della non-violenza quell’enorme, ribollente, serbatoio di insofferenza e di distacco nei confronti del sistema politico che circolava nel nostro paese. Un serbatoio che non è stato prosciugato come dimostrano i dati presentati ieri su questo giornale da Enzo Risso.

L’opinione pubblica si è messa in stand by, in attesa di vedere se può avere fiducia in qualcuno o qualcosa. Una attesa tutt’altro che speranzosa però, visto che  prevalgono ancora sentimenti negativi di rabbia, frustrazione, sfiducia.

Eppure, di fronte a questo clima d’opinione, confermato da tutti gli istituti di ricerca, Giuseppe Conte ottiene una valutazione straordinariamente positiva, intorno al 60 per cento, incomparabile rispetto ai suoi predecessori al momento della fuoriuscita da Palazzo Chigi. In Europa solo Angela Merkel lo supera, mentre tutti gli altri leader europei sono nettamente distanziati.

Questa considerazione è confermata dalla performance della sua pagina Facebook nel giorno del passaggio di consegne a Mario Draghi: in quattro ore, il suo post d’addio ha ricevuto 758.000 like, 89.000 condivisioni e oltre 200.000 commenti. Un boom senza precedenti. Cosa c’è dietro questo successo sui social? 

Lasciamo da parte le considerazioni sulla persona, sul suo modo pacato ed elegante che certamente ha attratto molte simpatie di cittadini ormai saturi di urla e invettive. 

La protesta silenziosa e le élite

Questo diluvio di apprezzamenti rivela un territorio che ancora una volta sfugge ai piani alti della comunicazione perché si muove sottotraccia, su basse frequenze. E’ quello dell’ estraneità o della protesta silenziosa nei confronti delle élite.

Questi sentimenti erano rappresentati dai Cinque stelle, ma dopo la loro virata governativa e pro-sistemica hanno trovato audience a destra, anche perché l’anti-politica alberga naturaliter da quelle parti, e solo eccezionalmente era interpretata da qualcosa di così peculiare come i grillini.  

Ora si tratta di capire se la protesta che tuttora cova sotto la cenere sarà ammansita dal governo Draghi, come ha fatto il  governo precedente.

La qualità dell’attuale esecutivo non teme confronti, ovviamente. Ma un conto è la stima e la considerazione internazionale, un conto la percezione che ne ha una opinione pubblica poco informata e tendenzialmente diffidente verso le élite.

In un contesto di instabilità e preoccupazione c’è il rischio che la destra post-fascista di Giorgia Meloni, unica opposizione al governo, faccia l’en plein. A meno del profilarsi di una offerta politica critica ma non anti-sistemica che potrebbe disinnescare una protesta pronta a infiammarsi. Un compito (impossibile?) per l’avvocato del popolo?

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