Tra le vicende che hanno lasciato un segno in questa strana settimana politica ci sono senza dubbio gli insulti via social a Liliana Segre, colpevole soltanto di aver ricevuto una dose di vaccino. L’indignazione generale per questo odio, che rielabora un antisemitismo presente anche in generazioni che si sperava ne fossero immuni, ha trascurato un aspetto della vicenda: lo strumento attraverso cui l’odio si diffonde, cioè le piattaforme digitali.

Se si guarda la faccenda dal cinico punto di vista di Mark Zuckerberg o Jack Dorsey, gli amministratori delegati di Facebook e Twitter, gli insulti contro Liliana Segre sono un ottimo affare: generano clic, traffico, dati e profilazione quando vengono scritti, generano posti di lavoro per società che moderano i commenti, poi creano altro traffico, dati e profilazione quando scatta l’indignazione per gli insulti.

La prova che tutto questo è parte del modello di business e non un incidente di percorso la trovate ovunque: Twitter ha chiuso l’account di Donald Trump, ma non ha alcuna obiezione per esempio su Chef Rubio, un personaggio televisivo dei programmi di cucina che ha la spunta blu degli utenti vip, 173.000 follower e su base quotidiana se la prende con Israele e i suoi cittadini, definiti, tra l’altro, «metastasi mondiale da neutralizzare».

Clic, traffico, dati: più il contenuto è ributtante, maggiore l’engagement che tutti inseguono sul digitale.

Mentre noi ci indigniamo – e indignandoci alimentiamo la macchina – in Australia Facebook oscura le notizie sulla sua piattaforma, per non pagare i gruppi media, come previsto da una nuova legge del governo.

Ha bisogno di contenuti gratis che generino azioni e reazioni, non vuole fare l’editore che investe, sceglie, remunera il lavoro ed è responsabile di quello che pubblica. 

E’ ora di prendere atto che l’odio social non è soltanto il prodotto di qualche mente disturbata, ma è il carburante di quel capitalismo digitale che sta corrodendo le nostre democrazie.

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