La storia tende a ripetersi, perfino nei dettagli. Qualche giorno fa Vladimir Putin ha firmato una legge che vieta l’uso di parole straniere nelle comunicazioni istituzionali russe e annunciato la pubblicazione di un dizionario che indicherà, per ogni parola straniera in circolazione, un equivalente russo ben radicato.

Non è la prima volta che in Russia si interviene su temi simili. L’anno scorso, nel pieno dell’invasione dell’Ucraina, fu proibito di usare in qualunque contesto la parola “guerra” (voyna) a proposito dell’intervento in Ucraina, il cui nome ufficiale è, come è ben noto, “operazione militare speciale”.

Sono annunciate azioni analoghe anche su questioni di contenuto: si prospettano punizioni per chi discredita l’esercito e diffonde statistiche non ufficiali sull’andamento della guerra, e sarà favorita la pubblicazione di fumetti esaltanti le glorie della Russia (i suoi eroi, le sue conquiste, le sue vittorie).

Totalitarismo linguistico

Notizie come queste portano subito il pensiero alla cosiddetta “politica linguistica” dei totalitarismi, come quella del nazismo e del fascismo.

Quest’ultimo sviluppò fino agli ultimi tempi una serie incalzante di misure per imporre una lingua comune a un paese multidialettale e ampiamente analfabeta.

Sebbene il proposito non fosse spregevole, le misure risultarono estreme, inapplicabili o ridicole. Alcune, come l’obbligo di sostituire il “lei” allocutivo col più italiano “voi”, sono note, come ne è noto il fallimento.

Ma ce ne sono altre, più di dettaglio, che ci portano vicino al caso russo. I primi bersagli furono i prestiti e le parole straniere, il cui uso nei media fu perentoriamente proibito.

Al loro posto, parole italiane, ripescate dagli archivi della storia oppure inventate di sana pianta. Molti di questi sostituti dettero agli italiani, in anni tristi, motivo di ridere.

Si partì dall’accentazione: non règime ma regìme, non rùbrica ma rubrìca, non i toscani lèttera e velóce ma i romani léttera e velòce.

Diversi nomi di luogo furono aggiustati, un po’ per abbellirli, un po’ per italianizzarli meglio, magari ripescando memorie latine: fu così che Monteleone Calabro divenne Vibo Valentia e Borgo San Donnino cambiò in Fidenza.

La misura colpì in modo più duro le aree di lingua tedesca o slave. Il prefetto di Trento stabilì nel 1923 che l’italiano fosse lingua d’ufficio e che insegne e pubblici avvisi fossero redatti solo in italiano.

I toponimi tedeschi furono sostituiti con altri italiani, definiti spesso cervelloticamente: o si riprese la nomenclatura latina (così Sterzing diventò Vipiteno), altre volte furono inventati adattamenti per assonanza (Auer diventò Ora Karersee divenne Carezza).

Più tardi, nel 1940, furono proibite le parole straniere «nelle intestazioni delle ditte industriali o commerciali e delle attività professionali», sia «nelle insegne» e in ogni altra forma pubblicitaria.

La bonifica linguistica

Il compito di indicare sostituti italiani fu affidato nel 1942 all’Accademia d’Italia, che propose tra il 1941 e il 1943 circa 1.500 termini.

Questa “bonifica linguistica” (come la chiamò il noto storico della lingua Bruno Migliorini) si basò su criteri diversi: adattamenti grafici (da the a ) o fonologici (da autocar autocarro), traduzioni (assegno al posto di check) e intere espressioni (bunker diventò fossa di sabbia).

Varie proposte si rivelarono subito strampalate e ridicole: al posto di cocktail si proponeva arlecchino, il dribbling diventava calceggio e la bagarre (nel senso sportivo) affollo.

Furono anche prodotte una grammatica scolastica “unica” e si tentò un dizionario, che la guerra fermò al primo volume.

Di quelle misure, prese con grandi sforzi propagandistici e sostenute da non pochi studiosi, non restano che i frantumi, che si usano ogni tanto per riempire le caselle delle parole crociate. L’animus sottostante, però, non si è estinto e permane vigoroso.

È su un atteggiamento di quel genere che la nostra presidente del Consiglio ha deciso di punto in bianco di sostituire negli usi ufficiali il termine paese con nazione (scambio semanticamente molto impreciso, ma già silenziosamente scivolato negli usi della Rai  e di vari opinionisti) e che alcuni membri della maggioranza, appena insediati, hanno riesumato, forse senza saperlo, la vecchia idea fascista di una grammatica unica e di una bonifica dell’italiano dai termini stranieri. Nulla di nuovo, dunque, sotto il sole dei totalitarismi.

Mentre Putin promuove le sue misure fasciste di bonifica, nell’altro emisfero del globo accadono cose affini. Il neopresidente di Mali, colonnello Assimi Goita, arrivato al potere con due colpi di stato (2020 e 2021) sostenuti dai russi dalle armate Wagner, una volta cacciati i francesi ha promosso un progetto di nuova Costituzione in cui si prospetta la cancellazione del francese come lingua ufficiale del paese a vantaggio delle numerose lingue del posto.

Qualcuno dei suoi oppositori (leggo su Le Monde del 3 marzo) ha suggerito che, di questo passo, la lingua ufficiale diventerà il russo. Il francese diventa mera “lingua di lavoro”.

L’esigenza di purezza 

Al pari di quella fascista, l’esigenza di “purezza” linguistica rivendicata da Putin risponde a una tradizione profondamente radicata nella storia russa, come racconta molto bene Orlando Figes nella sua recentissima Storia della Russia (appena tradotta da Mondadori).

Il libro presenta l’intero corso della storia russa moderna all’insegna di un’ininterrotta coltivazione di timori di aggressioni dall’esterno, dell’esaltazione della propria originaria purezza e superiorità e di un infrenabile bisogno di espansione.

Non per caso, la recente legge sulla purezza linguistica assume come punto di partenza l’esigenza (in realtà irrealizzabile) di unificare linguisticamente le duecento e più etnie costrette da zar diversi e poi da Stalin e successori a russizzarsi a qualunque prezzo.

Se è molto difficile cancellare l’uso di questa o quella parola, è più facile, con misure molto più percussive, proibire tout court l’uso delle lingue degli altri, imponendo la propria. Anche in quest’ambito la Russia ha una tradizione secolare.

Durante il periodo in cui la Polonia fu sotto amministrazione russa, durato più di un secolo e chiuso solo dalla Prima guerra mondiale, la lingua di insegnamento nelle scuole era obbligatoriamente il russo e in russo erano redatte tutte le comunicazioni ufficiali.

Maria Skłodowska, la geniale polacca che in Francia diventò nota come Marie Curie, in molte sue lettere e memorie racconta dell’umiliazione che costava ai giovani polacchi l’obbligo perentorio di usare una lingua non loro.

Nel suo piccolo, l’Italia fascista arrivò a servirsi anche di questo mezzo infame. Quando le isole del Dodecaneso (comprendenti Rodi) caddero nelle sue mani, per italianizzarle si fece come la Russia in Polonia: nelle scuole l’italiano e negli atti ufficiali l’italiano fu l’unica lingua autorizzata a scapito del greco.

Che cosa pensare di questi tentativi di fare pulizia politica colpendo le lingue? La storia mostra che sono votati al fallimento, per il motivo, verificato tante volte, che le lingue non sopportano di essere governate dall’alto, anche quando siano soggette a imposizioni violente.

Nel discorso in cui il 3 marzo ha presentato la sua legge Putin ha usato (come ha notato qualcuno) una quindicina di parole straniere, e sarà comunque difficile chiedere ai russi di impegnarsi a ripulire una lingua che pullula di stranierismi, in cui ad esempio la matita si chiama da sempre “karandash” (dal nome di una marca francese di strumenti di scrittura), la stazione ferroviaria “voxal” (da Vauxhall, la grande stazione londinese) e l’autostrada “shossé” (dal francese “chaussée”).

A proposito del Mali, sappiamo molto meno, ma è difficile immaginare che si possa davvero cancellare l’uso del francese, dato che questa lingua, pur essendo la traccia sempre bruciante di una presenza coloniale, è uno dei pochi collegamenti tra quel paese e il resto del mondo.

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