L’anomala esperienza di governo di Mario Draghi ha dato i risultati migliori ogni volta che le decisioni sono state chiare e nette: via Domenico Arcuri dalla pasticciata campagna vaccinale, dentro il generale Francesco Paolo Figliuolo, congedati senza rimpianti i vertici di servizi segreti e Cassa depositi e prestiti, idee chiare sul Piano nazionale di ripresa e resilienza (o almeno più chiare di quelle del governo Conte).

Anche nella gestione delle violenze di piazza di sabato scorso Draghi ha scelto una linea precisa: nessuna difesa dell’operato, insufficiente, della ministra dell’Interno Luciana Lamorgese, evidente solidarietà a fianco di Maurizio Landini e della Cgil, senza mai contribuire a rendere più aspro lo scontro. Draghi infatti non ha mai parlato di matrice fascista dell’attacco e non ha alcuna fretta di sciogliere Forza Nuova.

I problemi cominciano con i compromessi, fatti non per la necessaria sintesi che è l’arte suprema della politica, ma per le concessioni alla pratica deteriore di assecondare le polemichette di giornata o rivendicazioni dei leader di partito utili solo a stare in un titolo dei tg.

Finora la fermezza ha sempre pagato. L’Italia non si è fermata per l’estensione dell’obbligo di green pass sul lavoro, a differenza dell’inutile allarmismo di questi giorni, ma certo tutto sarebbe stato più semplice se il governo avesse fatto scelte chiare invece che ambigue.

Il vaccino protegge molto più dei tamponi (che testano la presenza del virus in un momento specifico, ma non riducono la probabilità di infettarsi subito dopo). Dunque, perché equipararli come base del green pass, senza peraltro dare la possibilità alle aziende di registrare la differenza tra i due casi? E l’obbligo vaccinale, che avrebbe tolto ogni alibi ai bastiancontrari alla Massimo Cacciari, che fine ha fatto? Draghi lo aveva annunciato e poi è sparito.

Se il governo vuole indirizzare verso la vaccinazione, certe proposte come quella del ministro Orlando di pagare i tamponi ai no-vax tramite le aziende devono essere spazzate via con fermezza prima che diventino concrete.

Con la sessione di bilancio che si apre, per Draghi la scelta tra decisioni nette “draghiane” e quelle irresponsabili e miopi che piacciono ai partiti si moltiplicheranno.

 Lega e mezzo parlamento si oppongono alla sacrosanta riforma del catasto, vari partiti contestano un modesto incremento del reddito di cittadinanza, la Cgil approfitta della manifestazione antifascista per chiedere, tra l’altro, la riduzione dell’età pensionabile (non è bastato lo spreco  di quota 100?)… E poi c’è il Pnrr, con i suoi 200 miliardi e un assalto permanente di ogni partito o gruppo di interessi.

 Su tutti questi temi servono scelte chiare, invece di costose vie di mezzo che costano qualche miliardo ai contribuenti senza produrre alcun risultato apprezzabile.

Anche ammesso che Draghi voglia trasferirsi presto al Quirinale, può decidere se andarci perché è riuscito ad accontentare tutti i partiti che lo devono votare o perché ha dimostrato di riuscire a elevarsi sopra la rissa quotidiana per costringerli a decisioni responsabili e lungimiranti. Anche perché, lo scorso febbraio, Mario Draghi ha ricevuto da Sergio Mattarella il mandato di commissariare un sistema dei partiti impazzito, non di piegarsi alle sue logiche.

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