Speriamo che la lezione sarda sia servita alle forze di opposizione. A ben riflettere non ci voleva un genio, sembra un’ovvietà: uniti si vince, divisi si perde. Specie in elezioni a turno unico. Come – scusate il dettaglio – anche nelle elezioni che più contano, ovvero le politiche. Eppure... Andiamo con ordine.

Giuseppe Conte, oggi raggiante, dovrebbe smetterla con i suoi capziosi distinguo. Tipo: il sofisma della differenza tra sinistra (non è una parolaccia) e fronte progressista; tra campo largo e campo giusto (?). O con il mantra secondo il quale le intese elettorali presuppongono convergenze politico-programmatiche. Anch’essa un’ovvietà. Chi può ragionevolmente negarlo? O ancora con la retorica secondo la quale il M5s sta a suo agio anche all’opposizione. Una boutade snobistica o una confessione d’impotenza per una forza parlamentare.

Vocazione coalizionale

A sua volta, una parte del Pd dovrebbe riflettere. Quella autolesionista o malmostosa che ha sempre remato contro l’alleanza, certo difficile ma obbligata, con il M5s. Contraddittoriamente è la medesima che ci ha sfinito con l’evocazione della vocazione maggioritaria e di governo del Pd. La quale, oggi, di necessità, si concreta semmai nella vocazione coalizionale.

L’opposto della presunzione dell’autosufficienza veltroniana prima e renziana poi. Sono coloro che hanno contestato a Elly Schlein la tensione unitaria, la pazienza e la tenacia nel tessere rapporti con i potenziali alleati, a cominciare appunto con il M5s, pur non limitandosi a esso. Accusando la segretaria di subalternità.

Senza intendere che appunto quello spirito unitario e coalizionale è semmai segno di forza e non di debolezza, il modo concreto ed eloquente di affermare la primazia di chi aspira a rappresentare il major party della coalizione. Non protestando una superiorità dinastica.

O ancora quelli, nostalgici o reduci del renzismo, che velleitariamente immaginano ci si possa limitare a una intesa con le esili e litigiose formazioni centriste. Con una conventio ad excludendum verso le altre.

Lezione per i terzisti

I terzisti, appunto, hanno preso l’ennesima sonora lezione. Vista la loro débâcle prima con Letizia Moratti e ora con Renato Soru, che pure vantava un suo personale consenso.

Terzisti nelle loro due note versioni. Quella della renziana Italia viva, la quale, anche a prescindere dalle frequenti liaison con la destra al governo, sconta un vistoso limite. Ovvero quello di avere fatto assurgere a programma e persino a tratto identitario la pratica corsara del ricatto politico verso i due schieramenti e, segnatamente, quella della politica a dispetto verso l’odiato Pd.

Un classico da fratelli coltelli, acuito dall’indole del suo spregiudicato leader. La seconda versione, quella di Azione, certo meno inaffidabile, e tuttavia caratterizzata a sua volta da un leader, Carlo Calenda, anch’esso fumantino, refrattario alle mediazioni, incline alla mitologia del terzismo e quasi ossessionato dal pregiudizio verso il M5s del quale – lui così asseritamente pragmatico – sembra negare la pur incompiuta maturazione. Quasi fosse ancora esattamente quello delle sue origini protestatarie e antipolitiche.

Infine, la legione degli editorialisti che si sono specializzati nello scavare solchi tra Pd e M5s. Anche qui di due fattispecie. Quelli che, in buona fede, non senza riscontri offerti dai due partiti, hanno programmaticamente negato anche solo la possibilità che, con il tempo e con un lavoro politico, essi potessero rispettivamente correggere il governismo (il Pd) e la vena populista (il M5s).

E quelli che più semplicemente si adoperavano e si adoperano per sancire una irriducibile incompatibilità che assicura sonni tranquilli per le destre al governo. Editorialisti, gli uni e gli altri, cui l’informazione tv largamente governativa fa ponti d’oro. Specie se essi si raccontano come voci indipendenti o addirittura di sinistra cui taluni abboccano.

© Riproduzione riservata