C’è un tema che fatica enormemente a entrare nell’agenda politica del paese ed è la questione salariale. Poche settimane fa un appello lanciato da oltre 120 lavoratori e lavoratrici (tra cui chi scrive) del liceo Almaldi, periferia di Roma, ha provato, dati alla mano, a sollevare “dal basso” il tema, normalmente derubricato a pura questione di contrattazione sindacale. L’inflazione degli ultimi tre anni è stata la più importante dagli anni Ottanta, oltre il 16% se sommiamo gli effetti del triennio. Il recupero salariale previsto dai rinnovi contrattuali delle varie categorie lavorative difficilmente supera il 6%. Il calo degli stipendi e dei salari reali nel triennio 2022-2024 rischia di essere intorno al 10%.

La recente perdita di potere d’acquisto è solo l’ultimo atto di una tendenza di lungo corso. L’Ocse aveva recentemente evidenziato come l’andamento dei salari reali in Italia negli ultimi trent’anni avesse avuto una traiettoria anomala. Dal 1991 al 2022 (quindi senza contare l’ultimo triennio) le paghe dei lavoratori dipendenti italiani hanno avuto un differenziale negativo di oltre trenta punti percentuali rispetto alla media dei paesi Ocse. Un’enormità.

Il problema non è solo la svalutazione prodotta dall’inflazione, ma anche la non redistribuzione degli aumenti di produttività. Facciamo un esempio per capirci. Con i salari del 2024 riusciamo a comprare circa un decimo in meno delle merci che compravamo trent’anni fa, perché i prezzi sono aumentati più dei salari. Meno pane, meno vestiti, meno cinema... Non solo, nel frattempo l’economia italiana ha aumentato la sua produttività, cioè, riesce a produrre più merci a parità di fattori produttivi. Questa ricchezza in più dovrebbe essere equamente distribuita tra salari e profitti, e invece è finita solo da una parte. In sintesi: negli ultimi trent’anni produciamo di più, ma i salariati riescono ad accedere a meno merci di trent’anni fa. Una doppia ingiustizia, ma non è solo una questione di equità.

La gelata salariale è una tendenza di tutto il mondo occidentale. La quota di ricchezza prodotta annualmente si è spostata percentualmente a vantaggio di profitto e rendita finanziaria. Ma in Italia questa tendenza è molto più netta, sintomo dell’affermarsi di un modello produttivo fondato sulle esportazioni di beni capaci di farsi largo nel mercato mondiale attraverso un dumping salariale. L’Italia sembra una sorta di Vietnam europeo, fornitore di beni intermedi a basso costo ad altre economie capaci di produrre maggiore valore aggiunto e maggiori incrementi di produttività. Tenere bassi i salari significa rafforzare questo modello, togliere una pressione che spinga le aziende a investire e a innovare.

Da questo punto di vista è interessante che l’appello dei lavoratori e delle lavoratrici del liceo Amaldi non ponga la questione salariale in una logica di settore, rilanciando il problema degli insegnanti meno pagati d’Europa (pur clamorosamente vera), ma parlando a tutto il mondo del lavoro. Saranno ora importanti due passaggi: le elezioni Rsu e la nascente mobilitazione partita dalla questione delle indicazioni nazionali. Se le elezioni rafforzeranno i sindacati (Cgil e sindacati di base) che stanno provando a opporsi al rinnovo al ribasso del contratto questo sarà un tassello importante per rendere credibile lo sviluppo di una mobilitazione duratura da qui all’autunno.

Dall’altra parte, l’assemblea che si è tenuta a Roma il 6 aprile contro le nuove indicazioni nazionali proposte dal Mim apre la strada a una possibile stagione di movimento del mondo della scuola. Per essere vincente deve però parlare a tutti e tutte, per parlare a tutti e tutte bisognerà mettere al centro la questione salariale. La scuola è nata per parlare del mondo e al mondo, non certo per parlare solo di sé stessa. Rivendicare per tutto il mondo del lavoro un aumento del 16% pari all’inflazione di questi anni potrebbe diventare una nuova battaglia unificante e potenzialmente vincente.

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