Il generatore automatico di iperboli politichesi ha infine prodotto l’espressione “governo di salvezza nazionale”, ripetuta oggi anche dal dimissionario Giuseppe Conte. La formula supera con slancio tutte quelle precedenti per designare un esecutivo che tenta di raccogliere i cocci. I governi sono stati tecnici, di scopo, di larghe intese, di transizione, di coalizione, di minoranza, del presidente, poi di unità nazionale e infine, in tempo di pandemia, perfino di “salute pubblica”, espressione vagamente giacobina però limitata al senso strettamente biologico del termine latino salus.

Per il governo di resilienza forse si è perso l’attimo. Il governo di salvezza ha sporgenze oltremondane. Sposta la questione dal transeunte all’eterno, portando grammatica e sintassi della lingua politica vicino a limiti ardui da valicare, perfino per un premier con ottime entrature a Villa Nazareth. La drammatizzazione del vocabolario pubblico è fenomeno ampio e trasversale. Il passaggio al governo di salvezza nazionale ricorda, mutatis mutandis, il salto linguistico che delle nebbie degli anni Dieci ha portato un nubifragio a diventare una bomba d’acqua, oppure quello, recente e rapidissimo, che per un breve tratto di cronaca ha tramutato i “responsabili” in “volenterosi”, involontaria rievocazione della “coalizione dei volenterosi”, la coalition of the willing di George W. Bush per rovesciare il regime di Saddam Hussein.

Ci si domanda come potrebbe essere denominato un governo che si propone uno scopo più alto, urgente e irrinunciabile della salvezza della nazione: governo di redenzione? Governo di felicità perfetta? Di eliminazione istantanea di tutti i mali del paese? Nemmeno il Comitato di liberazione nazionale, istituito dopo l’8 settembre del 1943, si è spinto fino a usare il termine “salvezza” per inquadrare il suo scopo, e allora c’erano pochi dubbi che ci fosse un paese da salvare.

Sarebbe però un errore ridurre la faccenda a una nota di costume sui mutamenti del linguaggio. La questione è politica, nel senso che riguarda i limiti di ciò che la politica può realisticamente permettersi di promettere, senza scadere nella pubblicità ingannevole di soluzioni di levatura apocalittica. La salvezza è una cosa seria, esonda dalle strette competenze del palazzo, è un sempiterno rovello dell’umanità che non si sistema con un programma di governo ben congegnato (e figurarsi con uno mal congegnato da un governo di salvezza nazionale che somiglia incredibilmente a quello dal quale intende salvarci).

L’opposto della salvezza è la dannazione, che, in qualunque senso la si voglia intendere, non è una cosa bella. C’è dunque, nell’abuso del termine salvezza nel contesto, pur drammatico, di una crisi politica, un che di ricattatorio: messi di fronte a una scelta fra la salvezza e la dannazione del paese, chi sceglierebbe la seconda? È un po’ come annunciare che si sta formando il governo del bene per salvare il paese dal male. Chi è l’irresponsabile che non sale sul carro? Anche Luciano Nigro, accorto intervistatore di Romano Prodi su Repubblica, si è posto la questione quando l’ex presidente del Consiglio ha ripetuto la formula che il Pd ha fatto circolare ad ampio raggio, e ha annotato che «raramente ha usato espressioni così».

Prodi, che è uno che notoriamente scherza solo coi fanti, ha tenuto il punto, parlando della «grandezza della sfida» e del futuro che ci stiamo giocando, ma ha assicurato che non c’è nulla di strumentale. C’è da credergli, ma rimane il dato politico e linguistico: chi si oppone al governo di salvezza, di fatto fa il tifo per il governo di dannazione. Non è che si sta un tantino esagerando?

 

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