Che fatica essere lesbiche in Italia, oggi. Non che sia mai stato riposante: quella lesbica è una soggettività da sempre invisibilizzata, che non trova spazi adeguati di espressione pubblica al di fuori dei circuiti Lgbt e femministi. Si parla di doppia discriminazione in quanto donne (o persone socializzate come tali) e in quanto lesbiche. Se poi si tiene conto delle altre variabili possibili, come l’essere una persona razzializzata, con disabilità, non binaria, trans, è chiaro che i piani di oppressione si incrociano, aumentando esponenzialmente.

È quindi ancora più avvilente, per le molte lesbiche politicizzate di questo paese, che le uniche ad avere voce siano lesbiche anti tutto, rappresentate dall’associazione ArciLesbica, che evidentemente usufruisce di un ottimo ufficio stampa. O al massimo Paola Concia, lesbica che non ha mai fatto parte in vita sua del movimento Lgbt ma che è sempre stata una dirigente di partito.

Nello spadroneggiare di ArciLesbica sulla scena generalista, sembra che tutti i giornalisti italici si siano dimenticati di chiedere a tutte le altre lesbiche quale sia la loro opinione.

Diciamo la verità: per i media, in quanto donne e in quanto lesbiche non abbiamo sufficiente agency (la capacità di incidere nel contesto sociale in cui si opera per cambiare uno status quo, indipendentemente dall’esito delle proprie azioni, nda) per essere nemmeno interpellate. Oltre ad ArciLesbica, l’unica lesbica che io abbia visto in un salotto tv, Otto e mezzo su La7, in questi tempi oscuri è stata la filosofa Rosi Braidotti, teorica del postumano, per ascoltare la quale c’era il contraltare del vice direttore della Verità Francesco Borgonovo, in nome di una presunta molteplicità di espressioni.

Come nel passato

Sembra di essere tornate ai primi anni Novanta, quando un eroico Franco Grillini doveva accettare di andare ai dibattiti televisivi sapendo di trovarsi di fronte sacerdoti e personaggi di varia umanità che avrebbero accostato in diretta l’omosessualità alla pedofilia o alla necrofilia.

Tutto sempre con la giustificazione di un’idea di pluralità molto alla carta e che nel 2021 cozza spesso con i diritti umani di base, come quello a non vedere le proprie esistenze invalidate da bocche piene di pregiudizi ignoranti.

Quindi assistiamo a una conversazione pubblica che ci esclude, in cui ci inseriamo a spinte e quando se ne offre l’opportunità. È dello scorso luglio un appello pubblicato sul Manifesto in difesa del concetto di identità di genere, e firmato da oltre 200 lesbiche e femministe solidali, ma allora questo tema non era ancora presente sui media generalisti, quindi anche quell’azione fece relativamente poco rumore.

Le lesbiche, è bene ricordarlo, hanno sempre incarnato l’identità di genere, hanno sempre attraversato i generi, sono sempre state devianti rispetto alla norma. Risuona nelle orecchie di molte la filosofa francese Monique Wittig con il suo «le lesbiche non sono donne», intendendo con ciò che le lesbiche si sottraggono alla definizione binaria e oppositiva di “donna” e “uomo”. Che dire poi delle butch, le lesbiche mascoline, quelle i cui stessi corpi rappresentano un fragile confine tra maschile e femminile? Il filosofo Jack Halberstam ne parla in termini di female masculinity, cioè “maschilità femminile”. Che dire delle lesbiche non binarie, che, magari troppo giovani per sentirsi risuonare dentro il pensiero di Wittig, si sentono più a proprio agio con il concetto di non binarismo?

Sono tutte vite già esistenti, qui e ora, con cui si dovrebbe fare i conti per costruire una società più giusta.

Sul concetto di minoranza: è imbarazzante sentire ripetere la pappardella sulle donne numericamente maggiori, e quindi avvilite dall’essere trattate come una minoranza. Chi sostiene questo o è ignorante o mente sapendo di mentire.

La minoranza non è (solo) numerica, diventa tale a causa di squilibri nei rapporti di potere. Viviamo in un mondo dominato da uomini bianchi eterosessuali, a cui non interessa particolarmente la percentuale di popolazione femminile, quanto dominarla, pagarla meno, pretendere di controllarne le scelte di vita attraverso il controllo del corpo.

Quel che si otterrebbe con l’approvazione del ddl Zan sarebbe il minimo sindacale che molte altre democrazie hanno già previsto: aggravanti sulla motivazione a commettere reati che già esistono. Dall’introduzione della legge 76/2016 che istituiva le unioni civili tra persone dello stesso sesso il mondo non si è capovolto, non è in atto una fantomatica dittatura del gender. E allo stesso modo non verrà impedita la libertà di opinione a chi vorrà dire cose amene sulla natura delle persone Lgbt.

Non si preoccupino, quindi, i vari lesbofobi e tutte le persone, anche sedicenti femministe, che vogliono invisibilizzarci o dar voce solo alle poche lesbiche che si accodano al loro conservatorismo: il ddl Zan non contiene un articolo in grado di risolvere la nostra marginalizzazione. Non lo contiene, ma lo sosteniamo in tantissime, certe di rappresentare, insieme agli altri soggetti Lgbt, una forza rilevante di cambiamento sociale.

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