Sono vari i fattori di rischio per l’economia. Eccezionali aumenti e grande volatilità dei prezzi dell’energia, oltre alle difficoltà nella logistica, si riflettono in una ripresa dell’inflazione su livelli mai più toccati dall’inizio degli anni Novanta in Europa e degli anni Ottanta negli Stati Uniti. Ne deriva un rallentamento della crescita di quest’anno e prospettive più incerte per il futuro (la previsione più recente, quella dell’Ufficio parlamentare di bilancio, rivede al ribasso per circa un punto di Pil le stime precedenti per il biennio 2022-23).

La politica monetaria è destinata a cambiare di intonazione, almeno per una fase temporanea, con aumenti dei tassi di interesse e tendenziale annullamento dei programmi di acquisti di titoli. All’incertezza economica si deve poi aggiungere per l’Italia quella politica, con il passaggio delle elezioni nel 2023 e i dubbi che da esse possa emergere un governo non in grado di garantire la realizzazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza e il rispetto degli impegni presi con l’Europa. Cattive notizie per un paese con alto debito pubblico come l’Italia che fanno presagire la possibilità di un ritorno alle tensioni sui mercati finanziari.

Il ritorno delle regole

Il 2022 è anche l’anno della possibile riforma del Patto di stabilità e crescita e del sistema di regole sulle politiche di bilancio, che comunque – riviste o meno che siano – torneranno ad essere applicate nel 2023, dopo la sospensione di tre anni dovuta alla pandemia. Sarebbe importante per l’Italia poter contribuire in modo credibile e autorevole alla discussione sulla riforma.

Fondamentale a questo fine dissipare i dubbi sulla capacità di condurre politiche di bilancio coerenti, che non significa politiche restrittive ma chiare nel perseguire gli obiettivi di migliorare il potenziale di crescita del paese e ridurre le disuguaglianze. Negli ultimi mesi, non sempre è stato così.

La percezione – sbagliata – della scomparsa del vincolo di bilancio ha indotto le forze politiche in Parlamento ad affiancare a misure che vanno nella giusta direzione altre che sembrano motivate da una facile ricerca del consenso (gli esempi più macroscopici sono i generosi bonus e la rinuncia a un dibattito serio sulla riforma tributaria che non si riduca alla richiesta di sgravi).

L’impressione è che dalla narrazione, un po’ caricaturale, di una sinistra a favore del “tassa e spendi” e una destra del “meno spese e meno tasse” si sia raggiunta una felice sintesi nello “spendi e non tassare”.

Un possibile approdo della revisione del sistema di regole è quello avanzato da varie proposte, tra cui quella del lavoro di Francesco Giavazzi ed altri citato nell’articolo di Mario Draghi ed Emmanuel Macron pubblicato sul Financial Times lo scorso 23 dicembre.

I singoli Stati dovrebbero concordare con la Commissione un programma triennale con un obiettivo realistico di riduzione del debito (compatibile con una politica di bilancio di sostegno dell’economia).

Le attuali tre regole (obiettivo di medio termine, debito e spesa), basate su variabili non osservabili come il Pil potenziale e l’output gap, verrebbero abbandonate e sostituite da una regola annuale che richiede che la dinamica effettiva della componente non ciclica del bilancio (in pratica, una parte della spesa pubblica) sia la stessa prevista nel piano triennale concordato. Insomma, si fa un programma a tre anni e ci si impegna a rispettarlo al netto degli effetti del ciclo sul bilancio.

Questione di credibilità

Da sempre, tutti i Paesi dell’Unione europea presentano ogni anno un siffatto piano triennale: il Programma di stabilità. Per l’Italia si tratta del Def (Documento di economia e finanza) approvato dal governo e pubblicato a inizio aprile. La questione è la nostra abitudine a non rispettarlo.

Da quando, nel 2014, il governo ha l’obbligo costituzionale di chiedere l’autorizzazione del Parlamento (con maggioranza qualificata) per poter deviare con la legge di bilancio dal programma approvato in primavera, lo ha sempre fatto (con l’eccezione dello scorso autunno).  Ciò chiaramente non ha aumentato la fiducia con cui altri Paesi della UE e mercati valutano i programmi italiani.

Qui c’è l’occasione di dare credibilità ai nostri programmi: presentare ad aprile un Def vincolante per il prossimo triennio. In altre parole, applicare noi stessi, autonomamente, la riforma delle regole fiscali evocata nell’articolo di Draghi e Macron. Sarebbe un vincolo credibile? Sì, se la costruzione del Def (vale a dire, l’obiettivo sul debito a tre anni) fosse condivisa da tutte le forze politiche che compongono l’attuale ampia maggioranza. Il nuovo governo del 2023 sarà comunque espressione almeno di alcune di quelle forze.

In passato si poteva obiettare – con qualche ragione – che i programmi della primavera si basavano sull’applicazione di regole troppo rigide e che l’interlocuzione con la Commissione europea aveva comunque portato a un accordo sulla loro revisione.

Quello scenario non sarà più percorribile nei prossimi anni quando le regole saranno riformate. È nostro interesse fare la prima mossa e invece di affidarsi a vincoli esterni fissare noi stessi un vincolo interno – un programma nazionale.

          

            

          

            

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