Ci si aspettava che la riunione della Bce di giovedì scorso fosse uno spartiacque, non tanto per l’annuncio della fine degli acquisti di titoli e l’aumento (il primo in dieci anni) dello 0,25 per cento dei tassi di riferimento a partire da luglio, ampiamente anticipati, ma perché ci si attendevano lumi su quattro quesiti su cui il mercato si sta interrogando da tempo, senza però aver trovato una chiave di lettura:

  1. Quale sarà la strategia della Bce per il ripristino delle condizioni di “normalità” nella politica monetaria; e in che cosa consiste esattamente questa “normalità? 
  1. Come intende riportare l’inflazione entro l’obiettivo del 2 per cento, e con quale credibilità visto che ha sempre avuto il problema opposto, ovvero contrastare la deflazione per avvicinare la crescita dei prezzi al tetto del 2 per cento, e ha ripetutamente mancato l’obiettivo? Intende dare priorità alla lotta all’inflazione, anche a costo di una recessione, o è disposta ad accettare una crescita dei prezzi superiore agli obiettivi?
  1. Quali sono le previsioni economiche sottostanti alla strategia della Bce per il tempo necessario a riguadagnare la normalità? E quanto sono credibili visto che quelle di appena tre mesi fa sono state drasticamente sconfessate dai fatti?
  1. Aumento dei tassi e rallentamento economico mettono a rischio la sostenibilità dei titoli di stato dei paesi altamente indebitati, come l’Italia. Quali strumenti intende impiegare per evitare quella che chiama “frammentazione” dei mercati, cioè una nuova crisi del debito sovrano?

Chi si aspettava risposte chiare è rimasto deluso. Anzi, la presidente Chirstine Lagarde ha annunciato conferenza stampa che il tempo della forward guidance, cioè il dichiarare i comportamenti futuri della banca centrale per ridurre l’incertezza e ancorare le aspettative, è passato per sempre. Restiamo quindi nel campo delle ipotesi.

La Bce ha dichiarato che ci sarà un altro aumento dei tassi a settembre, che potrebbe essere anche dello 0,50 per cento se l’inflazione prevista per il 2024 sarà superiore alla stima odierna di 2,1: il che è molto probabile.

Questo ha immediatamente spinto al rialzo le aspettative sui tassi: l’Euribor futures a 3 mesi, forse il più rilevante per l’economia, è salito a 1,2 per fine 2022 e 2,14 fine 2023 contro, rispettivamente, lo 0,10 e 0,80 di metà marzo. Il mercato quindi prevede un aumento di 1 punto percentuale entro fine anno: un incremento forte e rapido, se paragonato al passato recente. 

Ma quello che conta veramente è il dopo: la traiettoria verso il livello dei tassi considerato “normale” dalla Bce. Questo punto per la Bce è no comment. Alcuni suoi esponenti lo collocano tra l’1 e il 2 per cento, che è anche quanto si desume dalle indagini di mercato.

Se si tiene conto che la Bce stima un’inflazione che, dal 6,8 previsto per il 2022, scende al 2,1 per cento nel 2024, gli aumenti sono blandi perchè i tassi restano sempre ben al disotto dell’inflazione prevista. Giudizio confermato dal mercato, che ha subito deprezzato l’euro di quasi un punto percentuale rispetto al dollaro.

La giustificazione della Banca Centrale è che l’inflazione in Europa, a differenza degli Stati Uniti, è in larga parte importata, dovuta a shock esogeni (guerra in Ucraina, lockdown in Cina, disfunzioni filiere di produzione) e non ci sono pressioni salariali, quindi è destinata a tornare a livelli compatibili con gli obiettivi della Bce senza bisogno di tassi reali positivi nella transizione. Lo si estrapola dalle previsioni della Bce che stima un calo dell’inflazione di 4,7 punti al 2024, mentre il dato ex-food/energy nello stesso periodo cala solo di un punto (dal 3,3 al 2,3).

Il compromesso sull’inflazione 

Questo ci porta al secondo quesito. Secondo la Bce l’economia rallenterà rispetto a quanto stimato a marzo, ma rimarrà sempre vicino al trend di crescita: 2,8 quest’anno; 2,1 nel 2023 e 2024. Ma cosa succede se l’inflazione rimane più elevata e pervasiva, come stima per esempio l’Oecd (4,6 per cento nel 2023) e l’attività economica più debole del previsto? 

In mancanza di una politica fiscale comune e coordinata - lo strumento migliore per affrontare la crisi energetica (come sostiene Draghi) - con un’inflazione prevalentemente da costi e condizioni lontane dal pieno impiego, la politica monetaria può poco, e una manovra restrittiva manderebbe l’Europa in recessione.

Non credo sia politicamente possibile. Probabile piuttosto che la Bce adotti un compromesso: aumento dei tassi, ma non tale da frenare l’inflazione, tollerando più a lungo un livello superiore all’obiettivo del 2 per cento. In questa ipotesi, il rischio per l’Europa non è la recessione, ma la stagflazione (stagnazione con inflazione stabilmente superiore al 2).

L’incertezza del futuro e la percezione del rischio che ne consegue è in parte dovuta alla scarsa credibilità dello scenario economico su cui la Bce fonda le proprie decisioni.

Basta vedere come sono cambiate le stime della banca centrale negli ultimi tre mesi, a guerra in Ucraina già iniziata: l'inflazione per il 2022 è stata rivista dal 5,1 al 6,8 (era al 3,2 a dicembre scorso!) e dal 2,1 al 3,5 per il 2023; al ribasso la crescita, dal 3,7 al 2,8 nel 2022 e dal 2,8 al 2,1 nel 2023. Correzioni di misura eccezionale in pochi mesi, che minano la credibilità delle previsioni future.

In conferenza stampa, Lagarde si è difesa facendo notare che gli errori della Bce sono in linea con quelli di tutti i maggiori istituti di previsione. Questo è vero, ma il punto non è l’incapacità della banca centrale di formulare previsioni corrette, che date le circostanze può essere giustificata, quanto la sensazione che stia viaggiando a fari spenti, senza avere alcun piano di contingenza. Un’incertezza che pesa sui mercati e sull’economia.

I pericoli per l’Italia 

Il quarto quesito è quello che ci tocca più da vicino. La combinazione di rallentamento economico, peggioramento delle ragioni di scambio, inflazione e rialzo dei tassi è un cocktail altamente tossico per i titoli di stato dei paesi con un debito elevato, come l’Italia. Dalla Bce ci si attendeva misure concrete,al di là delle dichiarazioni di prammatica, per scongiurare il rischio di “frammentazione” che metterebbe a repentaglio l’esistenza stessa della moneta unica.

L’unico strumento che la Bce mette in campo però è il reinvestimento dei titoli in scadenza in portafoglio, dopo la chiusura dei due programmi di acquisto; con la flessibilità di utilizzo riguardo la giurisdizione dei titoli e la durata degli interventi.

A fronte di un attacco speculativo, un pannicello caldo perché limita necessariamente la quantità e la tempistica degli interventi possibili. Non vale certo un «whatever it takes».

Nel comunicato, inoltre, per ben due volte si specifica che questi interventi saranno possibili solo come conseguenza della pandemia; sembrerebbero quindi escludere interventi nel caso la crisi avesse origine squisitamente politica, come potrebbe accadere dopo le elezioni del 2023 (e come accadde nel 2018). Dei nuovi strumenti di cui si è tanto vociferato non c’è traccia.

Forse si vuole metterli in campo solo dopo che una crisi si è sviluppata, per non urtare la sensibilità di paesi come la Germania; ma a danno ormai fatto. Quindi sulla carta rimango solo i vecchi strumenti come gli acquisti OMT che però prevedono la condizionalità e l’intervento del Meccanismo di Stabilità Europeo. Qualunque governo emergerà dalle elezioni del 2023 dovrà farsene una ragione.

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