Fra annunci e rinvii a un certo punto si è parlato persino di metodo Mattei: una partitura ideata e scritta direttamente dalla premier forte a palazzo Chigi, con la Farnesina tenuta in disparte. Come se fossimo a Parigi, dove l’Eliseo detta la strategia africana a Quai d’Orsay. Poi, senza destare nemmeno troppa sorpresa, l’impatto con la realtà africana ha restituito alle patriottiche ambizioni una certa sobrietà di toni e aspettative. La scatola è parsa piena di progetti-spot, più o meno nuovi, la cui logica non varca la soglia che caratterizza una cooperazione allo sviluppo degna di questo nome. Come da copione, le presenze non esplicitamente evocate con pompa nel discorso pubblico sono quelle che contano: il ruolo dell’Eni nell’ambizione di creare un hub energetico (a compensazione dei rifornimenti russi perduti) e l’ossessione migratoria (sia pur accennata nella formula “guerra del terzo millennio agli scafisti”, quella che si doveva combattere in tutto l’orbe terracqueo).

È plausibile che dettagli significativi siano stati discussi a microfoni spenti: ogni summit vive di molte sessioni bilaterali parallele. A sgorgare copiosamente, nel mentre, è stata la retorica sull’approccio non predatorio dell’Italia, sul rifiuto dell’impostazione caritatevole, così come la sottolineatura delle soluzioni win-win, per liberare le energie africane per garantire alle giovani generazioni un futuro, insomma il diritto a non emigrare, più che quello a emigrare. E rieccoci con lo spettro migratorio, fino a planare sul collaudatissimo “l’Africa ha molte risorse naturali, non è un continente povero” (grazie tante).

Composta da 46 delegazioni africane, la platea ascolta queste parole ormai da anni e anni: niente di nuovo rispetto alle discussioni che i leader del continente hanno con i loro partner più importanti: Cina, Stati Uniti, Emirati, Turchia, Arabia Saudita, Russia, India, e soprattutto l’Unione europea, suo primo partner commerciale, includendo ovviamente la famigerata Francia di Macron. Per dirne una, i 5,5 miliardi promessi dall’Italia, confrontati con i 155 miliardi del Global Gateway europeo (al quale ci si vorrebbe agganciare), non impressionano particolarmente. E, del resto, chissà se poi gli italiani manterranno le promesse.

Remoto, esotico, inerte

Ma allora, se forma e contenuto destano un interesse tutto sommato relativo, che conclusioni tirare dal vertice Italia-Africa? Diciamolo subito: prima di denunciare il neocolonialismo (che l’Italia se anche volesse non avrebbe i mezzi per perseguire), la politica e la sfera pubblica italiana hanno bisogno di decolonizzare radicalmente il proprio sguardo sull’Africa.

E invece rieccoci con attenzioni episodiche per un continente di 54 paesi dipinto come un singolo paese: remoto, esotico e sostanzialmente inerte. Abbiamo letto titoli di giornale come “Chi comanda davvero oggi in Africa” con annesse cartine colorate e bandierine. Abbiamo letto critiche a Palazzo Chigi per i problemi di protocollo, per non aver portato a Roma abbastanza capi di stato o di governo, o per l’assenza di delegazioni da parte delle giunte golpiste nel Sahel.

In effetti, Algeria, Libia ed Egitto hanno mandato rappresentanti di seconda linea; il generale Haftar è rimasto a Bengasi a negoziare con i russi l’apertura di basi navali nel Mediterraneo; il presidente della Nigeria, primo Pil del continente, è rimasto in vacanza a Parigi.

Ma la narrazione andrebbe forse capovolta. Ventidue capi di stato e di governo sono molti, per un evento di questa portata limitata. Spiace doverlo ricordare, ma forse dovrebbe sorgere il dubbio che in Africa a comandare davvero siano gli africani. Che forse alcuni leader non si sono presentati all’appello italiano non perché glielo ha imposto Putin, ma perché non particolarmente interessati. Prendiamolo realisticamente per quello che è stato sin dall’inizio: un vertice organizzato dall’Italia, partner africano sottotono, generalmente apprezzato, ma non certo un pesce grosso.

Un vertice inizialmente previsto a ottobre 2023 e rimandato all’ultimo minuto, con tanto di (prima) figuraccia. Un evento che prometteva di svelare un grande piano che ha un titolo che risuona più in Italia che in Africa, che è stato a lungo circondato da relativo mistero, ma rispetto al quale – lo sapevano già tutti – non ci sarebbero state grandi sorprese.

La domanda da indagare – allora – non è perché non siano venuti gli assenti, ma piuttosto perché sono convenuti i presenti. Proviamo a riavvolgere la pellicola, guardando il film da un altro punto di vista.

È arrivato in prima pagina il commento del presidente della Commissione dell’Unione africana (Cua), Moussa Faki (stavolta quello vero, come ha sottolineato la premier riferendosi allo scherzo telefonico di cui è stata vittima). Faki ha gelato Meloni, ricordando come un piano che ruota intorno al principio-cardine della condivisione in realtà non ha visto la consultazione dei partner africani. Contraddizione palese e figuraccia, a cominciare dall’aver invitato un’istituzione come la Commissione dell’Unione africana senza averla prima interpellata. Probabilmente un errore più di forma che di contenuto, ma non per questo meno grave, proprio perché facilmente evitabile.

Ecco, dunque, la vera sorpresa per la premier: in Africa, come in Europa, esiste la politica. Incurante di Meloni, Faki probabilmente aveva per bersaglio i leader africani in platea, meglio disposti verso l’azione italiana, ricordando loro che non possono bypassarlo. Insomma, non solo il presidente della Commissione Ua rimprovera in diretta la premier italiana, ma utilizza lo spazio a cui Meloni lo ha invitato come arena per i propri fini nello scenario politico continentale.

La prospettiva del G7

Più che per il Piano Mattei, dal discorso di Faki così come da quello del presidente delle Comore, presidente in esercizio dell’Unione africana, è emerso l’interesse per il prossimo G7 a guida italiana. Lo sfondo è quello della concertazione dell’azione dei paesi africani nella riforma della governance mondiale, Consiglio di sicurezza dell’Onu in primis; la ristrutturazione degli organi finanziari internazionali, quali Fondo monetario e Banca mondiale; la revisione dei criteri delle agenzie di rating finanziario; la revisione dei crediti export dell’Ocse; la promozione di finanziamenti misti; e lo snellimento delle onerose procedure che accompagnano la cooperazione.

Insomma, la partecipazione africana al vertice Italia-Africa va anche inserita nel più ampio contesto dei vertici internazionali “Africa+1”, proliferati negli ultimi anni. Capi di stato e di governo africani partecipano infatti a diversi degli eventi organizzati dai propri partner: che si parli della Focac cinese, del Ticad giapponese, del Sommet Afrique-France, del US-Africa Leaders Summit, del Summit Russia-Africa, oppure del vertice Unione europea-Unione africana, la partecipazione dei leader africani ai partenariati internazionali si caratterizza per un approccio non esclusivo, estroverso e libero (per citare nuovamente il discorso di Faki). In risalto viene messo il rifiuto di allinearsi con un polo, presunto o reale, del nuovo scacchiere geopolitico mondiale, consentendo di considerare le offerte sui diversi tavoli fra loro in competizione, avendo come unico metro negoziale il proprio interesse. Ai convenuti a Roma non sono ignote le diversità e le rivalità fra i partner internazionali, incluse quelle fra partner europei.

Per poter cogliere l’importanza della politica in Africa e concepire iniziative efficaci è necessario disfarsi senza indugio del sottotesto di matrice coloniale, implicito ma sempre presente, che rappresenta l’Africa come scacchiere passivo. Forse sarebbe opportuno non chiudersi a palazzo a disegnare piani su un continente immaginario, ma ascoltare e confrontarsi. L’idea che l’Italia metta l’Africa al centro della propria politica estera è più che sensata, oltre che legittima. È già accaduto nella storia, con tanto di invenzione di sana pianta di una dottrina geopolitica calamitosa. Una politica capace di cogliere nuove opportunità non può che partire da nuovi punti di riferimento, ovvero dal prendere coscientemente le distanze da quella radice. A partire dal disconoscere le gesta del criminale di guerra, nonché ministro della Difesa della Repubblica di Salò, Rodolfo Graziani, che il ministro Lollobrigida, allora assessore ai trasporti della regione Lazio, onorò con affetto ad Affile, quale «punto di riferimento».

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