Lungo le coste dell’Africa orientale sta avvenendo un rivolgimento geopolitico di grandi dimensioni di cui è fondamentale conoscere l’ampiezza per prevenire le conseguenze. L’Italia è tra i paesi più interessati alla stabilità dell’intera macroregione: possiede interessi economici importanti (dal Golfo, all’Egitto, al Sudan, al Kenya, alla Tanzania e all’Etiopia); basi (Emirati – in chiusura – e Gibuti) e operazioni militari (Somalia tra le altre); ha una storica presenza in Mozambico e un’antica relazione con l’Eritrea.

A conti fatti nella Ue l’Italia è il paese con più interazioni senza discontinuità in tutta l’area, mentre – dopo la Brexit– gli altri stati membri sono coinvolti in maniera meno estesa e più puntuale. Nei giorni in cui inizia in parlamento la discussione sul decreto missioni militari all’estero, tale consapevolezza è utile per le commissioni Esteri e Difesa di Camera e Senato.

Nel mar Rosso e lungo tutta la costa africana bagnata dall’oceano indiano il nostro paese è esposto economicamente e ha interessi militari e politici. La nostra tradizionale linea per la pace e la stabilità è messa a rischio da una moltitudine di fatti strategici tra i quali: la competizione tra Egitto, Russia, Emirati e Turchia per il controllo dei porti e delle basi a uso duale (commerciale e militare) lungo tutta la costa; gli ostacoli alla libertà di commercio e la crisi debitoria di alcuni paesi, tra cui l’Etiopia, proprio nel momento in cui il nostro paese ha la presidenza del G20; l’intricata diatriba sulla base negli Emirati; la stabilità della giovane democrazia sudanese; il futuro della Somalia; gli importanti investimenti in Kenya e Tanzania; la difesa della posizione leader dell’Eni; l’intenzione della Cina di crearsi una base navale.

A ciò si sono aggiunte due prove da far tremare i polsi: la crisi dell’Etiopia e quella jihadista del nord Mozambico. In entrambi i paesi l’Italia rappresenta un partner storico.

Davanti a tale quadro occorre acuta coscienza delle minacce e chiarezza sul nostro interesse nazionale.

In Etiopia la posta in gioco è enorme: se non si frena la guerra in Tigray la frattura sfascerebbe tutto il Corno causando lo scivolamento dell’Ogaden nelle sabbie mobili somale; l’acuirsi del contenzioso con l’Eritrea; la tentazione secessionista oromo e la fine di un paese millenario. Ci sarebbero conseguenze gravi in Somalia, così difficilmente tenuta a galla; a Gibuti, fino in Kenya e così via. Se ad Addis si tratta di mettere in campo forme di pressione politica, in Mozambico si può affrontare la crisi jihadista partecipando attivamente e da subito alla nascente operazione europea.

L’Italia ha tutte la carte in regola per giocarvi un ruolo da protagonista e non da comprimaria. Solo per fare un esempio: la presenza della nostra marina militare potrebbe spezzare il flusso di aiuti che arriva ai jihadisti via oceano.

Non si tratta di andare in funzione combat ma di sfruttare fino in fondo le capacità stabilizzatrici e pacificatrici dei nostri militari, ben apprezzate nel mondo. Siamo intervenuti e interveniamo con missioni in paesi terzi su invito dei nostri alleati. È ora di pensare a interventi soprattutto in base al nostro interesse nazionale.

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