Le elezioni presidenziali americane del 1952, forse non quelle più impresse nell’immaginario collettivo, rappresentarono uno spartiacque nel modo di interpretare e condurre una campagna elettorale, con conseguenze profonde sull’attività politica e la qualità della democrazia più in generale. Come la storica di Harvard Jill Lepore racconta nei suoi bellissimi saggi Queste verità e If Then, in quelle elezioni emerse il grande potere, da una parte, della pubblicità, e dall’altra, dell’elaborazione automatica dei dati, cioè dell’informatica. Cresciuta soprattutto con l’avvento della radio, la pubblicità di prodotti commerciali ricevette ulteriore impulso dai primi passi della televisione, e soprattutto all’affermarsi della società dei consumi. Un messaggio breve, anche indipendente dalla natura e caratteristiche del prodotto, emergeva come l’approccio vincente per il successo commerciale. Il numero e le dimensioni delle società pubblicitarie crebbero velocemente.

Un precoce esempio della potenza dei messaggi pubblicitari anche in politica risale al 1949, quando diversi gruppi di interesse tra cui l’American Medical Association si affidarono a una società pubblicitaria per condurre una campagna di opposizione a una proposta di sistema sanitario universale avanzata dal presidente Truman. La campagna non approfondì le sottigliezze tecniche della riforma, né propose alternative. Lo “spot” fu semplice e diretto: la riforma avrebbe portato il paese dritto verso un regime socialista. Agli albori della Guerra fredda, bastò questo per influenzare l’opinione pubblica; l’amministrazione finì per rinunciare alla riforma.

I partiti presero nota. Poiché il successo bellico, la ripresa economica, e il collante dell’anticomunismo, avevano ridotto le differenze ideologiche e programmatiche fra democratici e repubblicani, si cominciò a pensare che per ottenere successo elettorale fosse più efficace stimolare impulsi ed emozioni, come per motivare l’acquisto di un detergente o di merendine – insomma, era il tempo di “comprare elettori” piuttosto che diffondere idee. La seconda novità del 1952 fu l’uso più sistematico dell’elaborazione automatica dei dati per prevedere, sulla base di numerosi sondaggi, l’esito del voto. Per la prima volta, nella serata delle elezioni, il canale televisivo Cbs mostrò un computer e fu in grado di fornire una proiezione accurata sui risultati finali, basandosi su pochi milioni di voti elaborati.

Nel 1960 i democratici costruirono la candidatura e la campagna di John F. Kennedy sulla base dei consigli di consulenti pubblicitari e esperti di dati e di marketing. Fino ad allora, per esempio, molti esponenti democratici, incluso Kennedy, erano stati molto reticenti al sostegno dei diritti civili. Ma le analisi e previsioni statistiche mostrarono che, per vincere la presidenza, era necessario il voto degli afroamericani, che a lungo erano stati più vicini al Partito repubblicano (il partito di Lincoln). La politica Americana, secondo Lepore (e tanti altri) non è più tornata indietro. La propaganda elettorale ha prevalso sull’elaborazione delle idee. La segmentazione dell’elettorato è risultata ancora più efficace se unita alla creazione di conflitto fra diversi gruppi e all’identificazione di nemici e conflitti per aumentare la lealtà al proprio gruppo.

Tre effetti preoccupanti

Ci sono almeno tre effetti di questi cambiamenti nell’azione e comunicazione politica che sono molto preoccupanti, e ancor di più nell’epoca della digitalizzazione e dell’intelligenza artificiale. Il primo effetto è che la continua ricerca di temi specifici per differenziarsi dalle controparti politiche spesso oscura la relativa importanza di questi temi, limita la capacità di vederne le connessioni, e finisce per distrarre da alcune questioni di fondo.

Secondo, una attività politica basata sulla ricerca sistematica del consenso, oggi analizzato in tempo reale, rischia di appiattirsi su obiettivi a brevissimo termine: una navigazione a vista che risponde al contesto immediato e riduce la riflessione e l’investimento su temi e politiche di lungo periodo. Infine, l’approccio “pubblicitario” alla comunicazione politica, e la possibilità di utilizzare tecnologie digitali e “immateriali” con potenzialità di comunicazione e di previsione enormi, riduce drasticamente gli incentivi delle forze politiche a operare direttamente e fisicamente sul territorio. Da qui, anche, l’esaltazione del partito “fluido”, “leggero” o “in rete” rispetto alle pesantezze della presenza territoriale, delle assemblee, e di una presenza nelle comunità.

Perché preoccuparsi di questi effetti, e perché in particolare un’agenda di sinistra e progressista dovrebbe occuparsene? Una politica incentrata sulla propaganda a base di “likes” e dove la verità dei fatti perde di rilevanza, punta sempre più, per scomodare Marx, su una fragile sovrastruttura invece che sugli aspetti politici, economici e sociali di fondo.

La predilezione per il particolarismo, la divisione, la concentrazione sul breve periodo, e il conflitto spesso creato ad arte portano a una disgregazione sociale che rischia di mettere varie categorie disagiate e penalizzate da alcuni cambiamenti epocali une contro le altre. Il marketing politico, insomma, divide i deboli, rendendoli ancora più vulnerabili perché divisi.

L’esportazione in Europa

E che dire della presenza sempre minore dei partiti sul territorio? Nel suo libro Il terzo pilastro Raghuram Rajan, economista all’università di Chicago, propone di riscoprire il ruolo delle comunità (fisiche, non virtuali) locali non solo per l’organizzazione di alcuni servizi, ma anche per uno sviluppo economico e culturale più inclusivo e ricco di senso. Né lo stato né il mercato sono in grado di supplire a quanto le comunità locali possono offrire. Partiti radicati sul territorio possono quindi contribuire a fornire quelle “esperienze comuni” e quegli incontri sociali che, secondo il giurista di Harvard Cass Sunstein, sono fondamentali per ridurre la polarizzazione e il conflitto che la propaganda politica ha coltivato e le piattaforme digitali hanno reso endemici e permanenti.

Come spesso accade, le tendenze d’oltreoceano sono poi sbarcate in Europa. La frammentazione dell’offerta politica, la nascita di partiti personali, l’emergere di slogan tanto martellanti ed efficaci quanto vuoti (“Il nuovo miracolo italiano”, “La rottamazione”, “Prima gli italiani”, “Vaffanculo”) sembrano il naturale esito di un processo iniziato settant’anni fa. Un esito che spesso non corrisponde a una vera battaglia delle idee e fra visioni del mondo, come testimoniano le maggioranze variabili, le alleanze fra nemici giurati, e più in generale, in molti paesi europei, la sempre maggiore difficoltà di formare governi coerenti e stabili nel loro patrimonio di valori e proposte. In Italia e non solo, inoltre, i partiti hanno a lungo rappresentato una fondamentale intermediazione fra la politica nazionale e le realtà locali, contribuendo allo sviluppo di un dibattito consapevole, capace di gestire le diversità e identificare punti in comune fra varie esigenze. L’alleggerimento della forma partito è quindi particolarmente penalizzante. La rivoluzione digitale, ancora una volta, si presenta come una enorme opportunità per la diffusione delle idee e per una più effettiva democratizzazione della politica e della società. Ma in un contesto in cui la politica è sempre più fatta di slogan e di ricerca del consenso immediato, allora l’uso delle nuove tecnologie può paradossalmente condurre agli effetti opposti, e contribuire all’evoluzione verso una società più divisa, conflittuale e diseguale. Anche di questo la politica, specialmente a sinistra, dovrebbe prendere nota.

 

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