Ormai è diventato un rito. Ad ogni scadenza elettorale locale, il centrodestra entra in una fase di turbolenza e di vere e proprie crisi di nervi. La scelta dei nomi dei candidati alle presidenze regionali e, soprattutto, ai posti di sindaco, pur essendo procrastinata fino all’ultimo momento per non provocare guai ancora più gravi, scatena un’aspra diatriba tra le componenti della coalizione, induce a convocare vertici e poi a disdirli, si trasforma in un’occasione per dichiarazioni reciprocamente ostili dei suoi esponenti e spesso si risolve in designazioni di personaggi di compromesso e di scarso peso personale, su cui si spegne la guerra dei veti incrociati ma che poi al momento del voto pagano la carenza di spessore del loro profilo.

È sempre andata così, dal 1994 ad oggi, e come conseguenza Forza Italia ed alleati non sono mai riusciti, nemmeno nei momenti di massimo fulgore, a replicare in sede di voto amministrativo le percentuali raggiunte in elezioni nazionali o europee.

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Anche quando sono riusciti a prevalere in grandi città, non hanno espresso figure forti e in grado di inaugurare una dinastia in stile Cacciari, De Luca, De Magistris, Leoluca Orlando: la “stagione dei sindaci” non li ha neppure sfiorati (ironia della sorte, per i pronipoti del capostipite della categoria, l’indimenticato Achille Lauro) e le giunte da loro dirette hanno subito frequenti scossoni ed avvicendamenti, figli delle originarie divergenze intestine delle maggioranze che le sorreggevano. Il fenomeno è apparso con maggiore evidenza in realtà metropolitane, ma basta scorrere le cronache dell’Italia “minore”, anche in questi giorni, per trovarne solide repliche ad ogni livello.

Certo, le eccezioni ci sono state, come quelle che hanno provocato di recente un imprevedibile cambiamento di colore della mappa delle amministrazioni locali nelle ex regioni rosse, Toscana ed Umbria in primis, o lo storico caso di Giorgio Guazzaloca a Bologna, ma si è trattato di successi dovuti alle simmetriche lacerazioni del fronte avversario o ad episodi di altrui malgoverno e corruzione, che non hanno prodotto un consolidamento delle posizioni raggiunte.

Il ruolo dei Cinque stelle 

L’elettorato impermeabile alle parole d’ordine della sinistra si è così diretto, non appena ne ha intravisto la possibilità, verso altre alternative, ed è grazie ad esso che si è potuto assistere ad una fioritura di successi del Movimento cinque stelle in ambito locale: ogni volta che un candidato grillino – definizione quanto mai esatta: perché era grazie alla retorica del capo/comico che quel pubblico si rendeva disponibile al sostegno – arrivava a conquistarsi un ballottaggio, su di lui confluivano i suffragi da destra: da Pizzarotti a Parma a Virginia Raggi a Roma, passando per Filippo Nogarin a Livorno e Chiara Appendino a Torino, sono molti i sindaci targati M5S che hanno dovuto lo scranno ad elettori di cui pure si sono in seguito affrettati a biasimare le opinioni.

Le cause di questa incapacità di una classe politica che, sondaggi alla mano, potrebbe oggi contare, in caso di consultazioni legislative, sul consenso di oltre la metà degli italiani, sono ovviamente molteplici, e più d’una è stata evocata nel dibattito giornalistico degli ultimi giorni.

Sul versante dei simpatizzanti, alcuni – per esempio il direttore di Libero Alessandro Sallusti – sostengono che il problema cruciale del centrodestra è di non avere più un unico leader forte, in grado di dettare legge e condizioni ai gregari, ma di possederne due certamente non deboli ma di quasi identico peso elettorale, Matteo Salvini e Giorgia Meloni, per i quali inserire un tassello in più dell’altro nel puzzle delle candidature e poter vantare qualche palese sponsorizzazione può risultare essenziale.

La concorrenza, insomma, accrescerebbe la voglia di primeggiare anche a costo di azzoppare candidati forti caldeggiati da altri, e nel contempo aprirebbe la strada a terzi incomodi – vedi la coppia  Giovanni Toti/Luigi Brugnaro, con la loro OPA ostile sui resti di Forza Italia – lesti ad indossare a proprio vantaggio le vesti dei mediatori (e degli azzeratori dei candidati non graditi).

Che questo sia uno dei fattori da tenere in considerazione, non c’è dubbio. Ma di sicuro non è l’unico. Conta almeno altrettanto lo scarso, se non nullo, radicamento organizzativo che i partiti della coalizione hanno su gran parte del territorio nazionale.

Dagli Appennini in giù, la Lega si regge su un sistema commissariale diretto dalla centrale milanese che non si cura affatto di reclutare e formare militanti e personale da inserire nei governi locali, secondo lo schema che era caro a Bossi, ma si limita a raccogliere un notabilato di modesto livello proveniente dalla deflagrazione di Forza Italia (che già non era certo un modello di articolazione strutturale).

I guai di Forza Italia 

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Molti problemi li ha anche Fratelli d’Italia, che è destinata ad irrobustirsi grazie all’effetto bandwagon dei sondaggi ma dovrà a sua volta gestire, per ora in carenza di quadri adeguati, lo scontato afflusso di carrieristi protesi a salire in tempo sul carro del pronosticato vincitore.

Quanto al resto, oggi, malgrado il proliferare delle sigle e i periodici tentativi di rimettere insieme i cocci di ciò che in precedenza si è provveduto a mandare in frantumi, è poco più di un pulviscolo di clientele, tenute assieme con i metodi e lo stile ben noti della diaspora postdemocristiana, o nel migliore dei casi un circoscritto aggregato di opinione collegato a personalità che, nel grigiore circostante, sono riuscite a ritagliarsi un’immagine di efficienza e/o protagonismo nel loro cortile di casa (di nuovo, i nomi di Luigi Brugnaro e Giovanni Toti raffigurano perfettamente il caso di specie).

C’è poi – guai a dimenticarlo – il fattore-sistema elettorale, che con la riforma del 1993 ha posto al centro del campo di gioco non solo la personalizzazione della figura e del ruolo di sindaco, ma anche il peso delle coalizioni di sostegno, prima e dopo le elezioni.

La proliferazione delle liste civiche da apparentare ne è un indicatore evidente: ogni espediente atto a rastrellare un voto in più degli avversari viene utilizzato e a ciascun candidato sono collegate liste che, con le denominazioni più fantasiose, puntano ad ingrossare il bottino dell’alleanza.

A ciò si aggiunge la possibilità di avvalersi, in vista del ballottaggio, della convergenza di uno o più candidati sconfitti e delle rispettive liste, che potrebbero così conquistare gli ambiti seggi in consiglio.

Sul centrodestra, già di per sé eterogeneo, questo meccanismo provoca un ulteriore effetto di frammentazione, che rende ancora più difficile gestire le campagne elettorali in un modo passabilmente unitario e, quel che più conta, spartirsi competenze e ruoli nelle giunte in caso di successo.

Senza candidati

La lista delle palle al piede di questo settore politico nello scenario delle elezioni comunali non è però conclusa qui. Rimangono almeno altri due elementi da citare.

Il primo, pure spesso evocato, è la congenita difficoltà del centrodestra di trovare candidati di buona e pubblica reputazione. Se la ricerca si orienta su personaggi noti del panorama politico, il rischio è quello di incorrere nella logica dei veti incrociati, perché la conquista di una grande città con un proprio esponente di spicco può significare, per un partito, una plusvalenza sgradita ai partners.

Se invece ci si rivolge ai cosiddetti esponenti della società civile, emerge una carenza da sempre visibile ma da altrettanto tempo trascurata: la marginalità rispetto ai circuiti sociali che contano, in primis quelli collegati ad ambienti intellettuali ed amministrativi. E anche nel mondo economico e delle libere professioni, meno ostile, sono pochi coloro che amano farsi etichettare da una candidatura “a destra” che li esporrebbe a critiche in ambienti con cui devono avere continua interlocuzione, dalle amministrazioni pubbliche alle rappresentanze sindacali.

Si è quindi costretti a rivolgersi a soggetti prossimi alla pensione o, come pare stia per accadere a Roma, a improvvisati tribuni del popolo, portati sulla cresta dell’onda dall’abilità nel coltivare umori ed emozioni via radio o social media ma privi della benché minima conoscenza della complicata macchina della politica.

Last but not least, c’è il problema dei problemi: l’impossibilità della coalizione di darsi un’identità coerente e l’incapacità delle sue componenti di disegnare un progetto d’insieme compatibile con le rispettive peculiarità. Ma questo è un tema troppo ingombrante, a cui sarà necessario dedicare un’analisi a parte.

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