Certe volte conviene tornare alle origini e ricordarsi perché esiste il potere politico. A scuola l’abbiamo imparato tutti: il potere politico esiste perché serve a qualcosa; dunque non è un assoluto. Esiste per porre termine a quello stato di violenza autodistruttrice in cui gli egoismi di ciascuno finirebbero per trascinarci. Per evitare che la rissa degeneri, insomma.

Libertà ceduta

Per uscire da questa rissa potenzialmente autodistruttrice, i consociati si mettono d’accordo su alcuni valori di base e cedono una quota della propria libertà al potere politico. Ma attenzione: una quota, mica tutta; solo quanto basta perché il potere politico possa operare per evitare il disastro di una guerra di tutti contro tutti.

E anche di quella quota di libertà che abbiamo ceduto, il potere politico potrà disporre soltanto con stretta adeguatezza al suo fine.

In definitiva, dunque, il potere politico dovrà svolgere il suo compito di custodia di una società ordinata – dove per ordine si intende che l’uomo, sia esso davvero lupo o no, almeno non si comporti da tale – senza mai arrivare ad espropriare completamente la libertà dei cittadini; e dunque soltanto come ultima spiaggia potrà arrivare a ricorrere a quelle sanzioni che proprio sulla libertà personale vanno direttamente ad incidere.

Per essere ancora più chiari: il ricorso al diritto penale – la scelta di individuare una specifica condotta umana, e criminalizzarla, associandovi una sanzione che può arrivare alla privazione della libertà – è l’ultima cosa che un potere politico che sia all’altezza della sua missione costitutiva dovrebbe (e potrebbe) fare.

Triplice fallimento

Criminalizzare una condotta è una triplice fallimento. Lo è anzitutto perché è l’ammissione di una inadeguatezza ad evitare la rissa in altri modi, con una efficace politica sociale. (Esempio: se arrivi a punire con la reclusione chi istiga ai disturbi alimentari, in fondo è perché non riesci a trovare modi più efficaci ed adeguati nel contrasto e nella prevenzione). 

Lo è, poi, perché una inflazione penale svuota di autorevolezza il sistema e lo delegittima, togliendo densità politica alla scelta criminalizzante e destinando ad un probabile fallimento la funzione preventiva della pena. Ci sono studi, soprattutto relativi alla situazione degli Stati Uniti, che restituiscono dati univoci in tal senso.

Ed è, nondimeno, un fallimento perché spesso l’overcriminalization ha una sfacciata funzione tranquillizzante degli elettori, e viene da chiedersi quanto bene stia messo un potere politico che per tener buoni gli elettori non trova altro modo che giocare a giustiziere della notte.

Criminalizzare tutto

È così del tutto legittima la perplessità dinanzi alla facilità con cui il governo di destra ricorre allo strumento penale – dai famosi rave party, passando per l’istigazione all’anoressia e bulimia, fino all’idea di rincarare il regime penale per i ragazzi di Ultima generazione (ora parzialmente rinunciata, ma vedremo fino a quando).

Quest’ultimo caso, poi, lascerebbe aperti molti dubbi. Capiamoci: perché ci sia un reato, è necessario che la condotta integri un’offesa ad un bene giuridico, che l’ordinamento intende proteggere.

Punisci l’omicidio, per proteggere il bene giuridico vita; punisci il furto, per proteggere il bene giuridico proprietà; punisci le aggressioni omofobe, per proteggere il bene giuridico libertà individuale e dignità (ah, no?); punisci i ragazzi che imbrattano con vernice lavabile il vetro che protegge un’opera d’arte, per proteggere quale bene giuridico? Non certo l’opera d’arte, che – nella maggior parte dei casi – non è direttamente colpita, o comunque lo è senza danno permanente. Qui l’unico bene giuridico che pare volersi proteggere è il valore simbolico dell’opera d’arte. Ma se il bene giuridico protetto è un valore simbolico, la pena non può che essere simbolica, non siamo ridicoli (che qui può dirsi anche: non siamo fascisti).

Emancipazione incompresa

La sensazione è che nell’affaire Ultima generazione torni, in fondo, la solita difficoltà di comprensione di ogni fenomeno emancipatorio. E non c’è emancipazione, senza gesti forti, di rottura, violenti, che puntino a scuotere la coscienza borghese. Gesti che non sono compresi, che creano fratture, che molto spesso feriscono qualcuno (come d’altra parte anche nel processo di emancipazione in famiglia: è indicativo che Nardella abbia detto di aver agito con «l’istinto di un padre o madre di famiglia»). Ma è il conflitto generazionale, baby, niente di più niente di meno.

E arrivare lì con manette e codice penale è uscirne sconfitti, e nel peggiore dei modi. Perché se il ricorso al diritto penale è sempre un fallimento per il potere politico, fallimento ancor più grottesco è impiegare il diritto penale senza accorgersi di aver già fallito, con la gonfia arroganza del proprio potere. E certe volte, non se l’abbiano a male, gli esponenti della destra italiana sembrano arrivare proprio così.

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