Sono pochi gli esempi così tanto eloquenti nel rivelare lo spirito dell’epoca attuale quanto lo è il metodo KonMari: capace di trasformare la pratica banale del riordinare una stanza in una vera e propria disciplina mentale. Un’arte che impone di suddividere gli oggetti per categorie, designando un apposito spazio per ciascuno di essi. Tecnica che ben si adatta anche all’infrastruttura culturale dell’uomo contemporaneo quando si propone di organizzare la miriade di informazioni che riceve nella “stanza ordinata” della propria mente. Salvo poi ritrovarsi perplesso di fronte a pezzi che non riesce a classificare, mentre altri nuovi continuano ad accumularsi, reclamando senza sosta la sua attenzione.

Mai come oggi possediamo risorse capaci di aiutarci a conoscere il mondo e agire su di esso, e mai come oggi abbiamo difficoltà a gestirle. Un tempo si governava il flusso del sapere in modo diverso: il suo volume era meno abbondante e ci si misurava con l’evidenza che non tutto fosse accessibile attraverso l’intelletto. Si era costretti ad accettare il limite della comprensione, consolandosi con miti arcani e magiche interpretazioni di un universo per lo più indecifrabile. Un processo spesso falso e carente, ma a suo modo stabile e resistente.

Con la rivoluzione scientifica e l’esplosione della capacità informatica, i limiti della nostra conoscenza si sono sgretolati, facendo germogliare in noi il desiderio e l’aspettativa crescente di poterne disporre in maniera sempre più completa: occupiamo il tempo a informarci, in preda all’affanno che ogni dato lasciato per strada possa condurci verso una decisione errata.

Il fenomeno ha finito per cambiare il modo in cui ci approcciamo, conosciamo e agiamo nel mondo: è esso stesso ad aver propagato l’idea che la chiave del suo controllo passi per una comprensione completa della realtà. Un intento chiaramente irraggiungibile e che ci appare tanto più lontano quanto più cerchiamo di definirlo, giacché l’onda di dati che continua a travolgerci non intende arrestarsi.

L’ansia di comprendere “tutto” diventa così vera e propria frustrazione non appena ci accorgiamo che la realtà non si manifesta nella maniera chiara che avevamo immaginato. Una confusione fisiologica che diviene insopportabile quando il presente diventa patologico: la guerra, la pandemia, la crisi economica… sono momenti in cui sentiamo più forte tutta la nostra incapacità di trovare certezze. Lo sconquasso dei bombardamenti riverbera il suo dolore anche negli scomparti della nostra mente, portando la guerra dentro di noi.

E se c’è chi si dispera per questa devastazione, c’è chi al contrario reagisce con risolutezza, decidendo di cestinare tutto ciò che appare incomprensibile e conservando nella stanza un unico simbolo della realtà. Un nuovo credo, un nuovo “Dio” che diventa il punto di riferimento permanente su cui appiattire le increspature del presente. La fuga dalla complessità verso ritratti stilizzati del mondo è per molti l’unico modo per sopravvivere al tormento della guerra interiore, anche a costo del sacrificio del pensiero critico: prima vittima di ogni conflitto.

A un certo punto, tuttavia, anche le condizioni patologiche più acute si acquietano: i cannoni tacciono, i virus mutano, il sole risorge e la vita va avanti. Questo è il momento di rischio maggiore, perché anche in tempo di pace è difficile resistere al fascino di un “Dio” così rassicurante. Allora, anziché concepire il nostro rapporto con il reale come una stanza disordinata e fuori controllo, forse dovremmo incominciare ad intenderlo come un cammino. Un viaggio insidioso, talvolta scivoloso, come quello dell’ammonimento di Deng Xiao Ping: “Bisogna attraversare il fiume tastando le pietre”. Parole che ci ricordano che, nella tumultuosa corrente della realtà, non possiamo che procedere scegliendo le informazioni con cura: quelle che ci sembrano più stabili e vicine, ben consapevoli che, di fronte al guado incerto, ogni passo va misurato con attenzione.

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