C’è sempre grande entusiasmo ogni volta che il Movimento Cinque stelle rinuncia a uno dei suoi temi fondanti: si parla di normalizzazione, incivilimento, di fine dell’ingenuità, che si tratti di scontrini, scissioni, poltrone o condanne. L’ultima svolta è quella del ministro degli Esteri Luigi Di Maio, ex capo politico ma tuttora figura di riferimento, che scrive una lettera al Foglio: «Mai più gogna, chiedo scusa», questo il titolo che ben rispecchia il contenuto.

Il caso è quello dell’ex sindaco di Lodi Simone Uggetti, di recente assolto in appello dall’accusa di turbativa d’asta. Di Maio si scusa per la campagna che i Cinque stelle avevano lanciato sulla vicenda all’epoca dell’arresto, nel 2016, quando la contrapposizione con il partito di Uggetti – il Pd di Matteo Renzi – era massima.

Di Maio nella sua lettera segue tutto il copione richiesto da quel peculiare filone del pensiero garantista italiano che si dedica in modo quasi esclusivo ai politici.

Il primo punto è prescindere rigorosamente dal merito, dire “aspettiamo le sentenze” nella fase delle indagini, commentare le sentenze di condanna in primo grado ricordando che c’è sempre l’appello e poi la cassazione, salutare quelle di assoluzione come le uniche che stabiliscono una verità incontrovertibile a conferma che tutto, fin dall’inizio, è stato soltanto una forma di accanimento o di interferenza della magistratura nella vita politica. Se poi, malauguratamente, c’è una condanna definitiva, allora bisogna ben guardarsi dal fatto che produca conseguenze sulla reputazione, per evitare l’accanimento (vedi i casi di Roberto Formigoni o Ottaviano Del Truco).

Se gli strepiti e i comizi del 2016 erano un po’ eccessivi, come ammette oggi Di Maio, altrettanto stonata è la lettera con la celebrazione della «forza, tenacia e dolore» con cui Uggetti è riuscito «a dimostrare la sua innocenza». A leggere Di Maio pare che pm vagamente eversivi abbiano scatenato una campagna contro il sindaco di Lodi, cavalcata in modo irresponsabile dai Cinque stelle, ma per fortuna la giustizia ha trionfato.

Come sempre, la realtà è un po’ più sfumata delle versioni caricaturali: una dipendente del comune di Lodi riteneva di che il bando per la gestione di certe piscine fosse stato manipolato per favorire il vincitore deciso dalla politica, si rifiuta di avallare la procedura, riceve varie pressioni, registra tutto e poi denuncia. Uggetti non solo di fatto ammetterà di aver manipolato il bando («l’ho fatto per il bene della città»), ma si mette anche in condizione di influenzare le indagini, contattando il comandante provinciale della Guardia di finanza.

In un’amministrazione pubblica trasparente e funzionante, come quella che i Cinque stelle hanno a lungo promesso senza provare a costruirla, la funzionaria di Lodi avrebbe avuto un binario per denunciare le presunte scorrettezze, anche se riguardavano il sindaco, senza trovarsi costretta ad andare in procura. E invece la dipendente comunale ha dovuto rivolgersi all’autorità giudiziaria.

Le cose hanno fatto il loro corso e la storia, evidentemente, non era così campata per aria visto che prima un giudice ha convalidato gli arresti, poi un altro ha condannato Uggetti e gli imprenditori in primo grado. Ma poiché prevale il grado più alto, la verità giudiziaria è che «il fatto non sussiste», cioè la turbativa degli appalti, come ha stabilito il giudice d’appello. Ma questo rende tutta la vicenda fondata sulla sabbia, prodotto di una persecuzione politica, o semplicemente priva di conseguenze penali?

E’ una ben strana idea di giustizia quella tanto diffusa in Italia in base alla quale soltanto una sentenza di condanna rende, a posteriori, un’azione giudiziaria legittima. La procedura penale stabilisce in realtà – e per fortuna – diversi livelli: un giudice stabilisce se ci sono i presupposti per le misure cautelari, un altro se ci sono quelli per un processo, un altro ancora per la condanna.  

Il lato paradossale del garantismo al quale si è convertito Di Maio, è che rinnega la legittimità del giudizio politico, prevede che sia impossibile formarsi un’opinione degli eventi al di là del verdetto binario del tribunale, assolto/condannato, e quindi lascia in ultima analisi ai giudici la responsabilità di dare giudizi politici. Mentre a loro spetta soltanto il compito di decidere se certi comportamenti configurano reati e, in caso affermativo, quale sia la pena prevista dalla legge.

Questa posizione, che si manifesta rigorosamente soltanto dopo le sentenze di assoluzione e mai dopo quella di condanna, ha sempre fatto comodo a partiti di ogni colore politico.

Ora ne scoprono il fascino i Cinque stelle perché, come ammette lo stesso Di Maio nella lettera al Foglio, anche loro hanno un po’ di indagati e condannati tra le loro fila e dunque sono diventati più cauti.

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