Più passano i mesi, più si capisce che c’è qualcosa di profondamente sbagliato nel Piano nazionale di ripresa e resilienza che nessuno potrà correggere, men che meno questo governo a colpi di dichiarazioni e propaganda.

Arrivano 191,5 miliardi, parte a fondo perduto parte prestiti, è una buona cosa, no? Al massimo non li spenderemo tutti, ma meglio che niente, hanno detto in tanti in questi due anni.

C’è un effetto indesiderato: il Pnrr sta diventando una specie di esperimento sociale collettivo che rivela la vera natura del problema dell’Italia.

Che non è mai stato il troppo debito, l’assenza di soldi da spendere o le coperture, ma tutto il resto: un paese che dei soldi non sa che farsene, che non riesce a spenderli e che non contempla alcun approccio democratico alla decisione su come distribuire risorse scarse se non l’approccio predatorio (chi primo arriva, più prende).

Mistero Pnrr 

LAPRESSE

Basta vedere la comunicazione sul Pnrr per capire che c’è un problema a monte della “messa a terra”, espressione dal significato oscuro diventata però di uso comune in materia. Intanto è impossibile sapere chi sta facendo cosa e come.

Certo, le informazioni ci sono, ma esiste un essere umano che riesce ad acquisirle e poi magari a capirle? Il sito del governo Italia Domani dovrebbe offrire trasparenza e monitoraggio.

Magari esiste qualcuno in grado di apprezzare che il codice obiettivo M1C1-57 (Milestone) richiede al Pcm Dfp - Dipartimento della Funzione Pubblica di occuparsi della “Riforma 1.9 - Riforma della Pubblica Amministrazione” nell’ambito della quale sono stati adottati gli interventi attuativi di semplificazione derivanti dal decreto-legge n. 77 del 2021 e dal decreto-legge n. 152 del 2021, per esempio «1. Istituzione della Commissione tecnica VIA per i progetti PNRR-NIEC (attuazione con Decreti MITE n. 361 del 2/9/2021 e n. 362 del 3/9/ 2021, entrati in vigore il 3/9/2021)».

Informazioni che devono alludere a qualcosa, ma che sono assolutamente inutili per i cittadini e perfino per i giornalisti, ed è un peccato perché ci sarà stato qualcuno che ha passato giorni o settimane a raccogliere, sistemarle, pubblicarle.

Ci sarebbe la Corte dei conti che ogni sei mesi riferisce al parlamento sullo stato di attuazione del Pnrr.

Già è bizzarro che siano dei magistrati contabili a occuparsi di un’analisi che è manageriale, economica, ingegneristica, ma non giuridica.

Meglio che niente, comunque, peccato che i giuristi non abbiano il dono della sintesi: la versione compatta della relazione sono comunque 39 pagine con troppe parole e pochissimi grafici, comunque riferiti ad acronimi ostici. La versione estesa sono due agili tomi da 470 pagine l’uno.

Anche dopo vari tentativi di immersione, le informazioni decodificabili non sono moltissime. Una utile è che l’idea che si debbano “spendere” i soldi è un po’ riduttiva, così come quella che possa esistere una misura della “spesa”.

Al 13 febbraio 2023, ci informa la Corte dei conti, «le unità progettuali censite nel sistema si attestavano a circa 134 mila ed erano relative a 148 delle 285 misure che compongono il Pnrr (52 per cento del totale)».

Niente male, verrebbe da dire, visto che «a tali iniziative si associano costi ammessi a carico del Piano per oltre 93 miliardi; a ciò devono aggiungersi ulteriori 25 miliardi di risorse integrative, prime fra tutte quelle dei programmi del Piano per gli investimenti complementari che cofinanziano investimenti del Pnrr». Sembrerebbe che siamo quasi a metà.

E invece no, perché il fatto che esista un codice unico di progetto non significa neanche lontanamente che il progetto poi produca qualcosa.

Infatti a fine 2022 la spesa sostenuta dalle amministrazioni “può essere stimata in oltre 23 miliardi, circa il 12 per cento delle dimensioni finanziarie complessive del Piano (191,5 miliardi)”.

Già siamo passati da 93 miliardi a 23. Ma c’è ancora un trucco, una gran parte sono crediti di imposta del piano Transizione 4.0, cioè sconti fiscali, non vera spesa che produce un intervento concreto, e poi ci sono vari bonus edilizi a drogare il dato.

Al netto di tutto questo, «il livello di attuazione finanziaria scende al 6 per cento». Un bel disastro, ma non è finita, perché ci sono alcune missioni del Pnrr che non arrivano al 5 per cento, anche se sono quelle che molti cittadini considererebbero prioritarie, tipo la salute, l’inclusione e la coesione, l’università e la ricerca.

Il peso del territorio

Siamo praticamente fermi, insomma. E non è difficile capire perché, anche se bisogna addentrarsi un po’ nelle relazioni della Corte dei conti: grazie a un principio che si chiama “territorializzazione”, il grosso del Pnrr è stato spalmato sul sempre evocato territorio.

Anche se, spiega la Corte dei conti, il fatto che un progetto sia assegnato a un territorio non significa che sia davvero poi il Comune ad attuarlo, ma magari è un altro soggetto che ha potere di incidere davvero sul territorio, tipo l’Anas, le amministrazioni centrali, le Ferrovie, altro.

Ma in almeno il 53 per cento dei progetti relativi alle misure oggetto di riparto, cioè spalmati sul territorio, il soggetto attuatore è il Comune per l’incredibile quota dal 42 per cento del totale dei fondi a disposizione. Secondo l’analisi su un campione di 53.665 progetti affidati a Comuni, ben 31.717 pesano su 5.506 comuni che hanno meno di 5.000 abitanti.

Che è come dire che ogni piccolo comune del campione deve attuare 6 progetti del Pnrr. Auguri.

Anche con un uno o due mesi in più prima di richiedere la terza rata di pagamenti, è difficile che questi difetti strutturali del Pnrr vengano superati. 

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