«Nell’ambito del nostro mandato faremo tutto il necessario per preservare l’euro. E credetemi, sarà abbastanza». Ho sempre pensato che la parte importante della celebre frase di Mario Draghi del 26 luglio di dieci anni fa fosse, e sia tuttora, la seconda.

Quella che tutti citano, quando la citano, quasi con noncuranza, come il basilico messo alla fine su un piatto di spaghetti al pomodoro, che potresti non metterlo e mangiare bene comunque, ma non sarebbe la stessa cosa: «And believe me, it will be enough!»

La similitudine non è irriverenza, ma l’esaltazione della grandezza della semplicità. Pochi ingredienti genuini, una grande sapienza, un piatto insuperabile.

Gli investitori gli credettero. Nessuno, nemmeno per un momento, pensò di andare a vedere se davvero Draghi e la Banca centrale europea avrebbero fatto qualunque cosa fosse stata necessaria per preservare l’euro.

Perché tutti, a quel “credetemi”, raggelarono nei propri propositi speculativi (parola che non amo). Improvvisamente, “andare corto” (cioè scommettere al ribasso su) euro, credito, Italia, divenne estremamente costoso, perché il presidente della Banca centrale europea, Draghi, aveva detto quelle poche, tanto semplici e tanto potenti parole: «…and believe me, it will be enough!».

In fondo, il senso della finanza, del mercato obbligazionario in particolare, è tutto racchiuso lì, in quelle poche parole. Ciò che si scambia in ogni istante sui mercati, infatti, non è altro che tempo e fiducia, credibilità.

E quando il prezzo che il mercato chiede per prestarti dei soldi sale, in termini di interesse richiesto, significa semplicemente che la fiducia in te come debitore si è affievolita, che il tempo relativo che ti è concesso è diminuito.

O meglio, quel tempo ha un valore maggiore. Per questo, la parte finale della finora più famosa dichiarazione del nuovo millennio, è l’essenza stessa della finanza. Un semplice, incredibile, piatto di spaghetti al pomodoro.

Bread and butter, dicono gli inglesi. Ma volete mettere?

L’illusione del 2011

Quegli anni, quelli della grande crisi finanziaria, furono il risveglio dall’illusione che il solo aderire all’area valutaria comune avesse eliminato le divergenze tra le economie europee. Non esisteva più il premio per il rischio, il tempo e la fiducia avevano per tutti lo stesso valore.

Alcuni, più di altri, con le loro scelte politiche cercavano di godere di questa sorta di pasto gratis: avrebbe pagato qualcun altro. Nel tempo, nello spazio, nella società. Una traslazione dei costi perpetua, che poi, vuol dire irresponsabilità.

Fino a quando ci si siamo resi conto che le leggi della fisica non erano mutate, esisteva ancora il tempo e aveva un valore diverso dato il suo utilizzo o spreco.

Molti non sanno, o confondono nella memoria, che il Whatever it takes non segnò l’inizio degli acquisti di titoli di Stato da parte della Banca centrale Europea. Anzi, è vero il contrario.

La Bce, infatti, aveva iniziato ad acquistare titoli di alcuni emittenti europei già il 10 maggio 2010, con il lancio dell’Smp, il Security Markets Programme, che venne sospeso poco dopo il Whatever it takes, dal 6 settembre 2012.

Nei suoi due anni di vita l’Smp aveva limitato le oscillazioni degli spread, più per i paesi più piccoli, a dire il vero, che per l’Italia, e non riusciva a rassicurare il mercato circa la volontà di evitare in ogni modo che le tensioni su alcuni emittenti portassero alle estreme conseguenze del break-up dell’Euro. Talmente forti furono quelle parole e le decisioni che implicavano che lo strumento che le sostanziava,  l’Omt (Outright Monetary Transactions), non è stato mai utilizzato.

Italia nel mirino

Dalla tarda primavera del 2011 l’Italia era entrata nel mirino dei mercati. Errori nostri, errori di altri, la passeggiata di Merkel e Sarkozy sulla spiaggia di Deauville, la costruzione di meccanismi di salvataggio che potevano funzionare sui più piccoli ma che non sarebbero stati minimamente efficaci per i Paesi più grandi. Così gli investitori più aggressivi cominciarono a vendere Italia. Eravamo l’elefante nella cristalleria dell'incompleta costruzione europea.

Li vedevamo arrivare la mattina presto, dapprima sul mercato dei cambi, quello che non dorme mai. Poi i future, che davano il senso di quanto sarebbe stata pessima l’apertura del mercato cash.

I blog anonimi, il solito editorialista ultraconservatore britannico, la rassegna stampa di notizie che non avevano il tempo di essere cronaca che già erano storia, nel migliore dei casi.

Poi l’apertura delle contrattazioni sul mercato dei titoli di Stato, chi era il mover di giornata, chi seguiva in simpatia.

Un mercato opaco reso famoso qualche mese prima dallo scoppio della bolla finanziaria e immobiliare, una sigla oscura per molti, Cds, Credit Default Swap. Poi era la volta dell’equity, banche e assicurazioni soprattutto.

Ogni mattina era la scena di un brutto film di serie B, acque apparentemente calme e prive di vita, una goccia di sangue cade nel fiume e inizia il banchetto di pesci famelici. Ogni giorno, orari scanditi dell’apertura dei vari mercati.

Ci furono bail-in, bail-out, task force, si inventarono nuovi strumenti e nuovi acronimi, architetture complesse che però evitavano di esplicitare il destino comune a cui i paesi europei erano indissolubilmente legati.

Sì misero delle toppe a una ruota che perdeva aria da troppi fori. Si comprò tempo.

Fino a quel giorno di luglio di dieci anni fa, fino a quelle parole che chiarirono che in acqua c'era un pesce più grande di tutti e non era il caso di sfidarlo, «and believe me, it will be enough!»

Tempo e fiducia

Dieci anni dopo, siamo ancora a quell’equazione fondamentale di tempo e fiducia, ma le condizioni di contesto sono molto cambiate.

Oggi non è più in discussione la tenuta dell’euro, che ha senso solo nell’unità dei paesi che lo adottano come valuta e, fra pochi mesi, un altro Stato, la Croazia, adotterà la moneta comune.

Oggi, dieci anni dopo, molte cose sono cambiate, alcune sono purtroppo simili. Si torna a parlare, giustamente, del ruolo della banca centrale e della credibilità dei policy maker.

La risposta all’emergenza pandemica è stata forte ed efficace, ma ora l’inevitabile rimozione degli stimoli monetari a seguito della forte crescita dell’inflazione rischia di produrre conseguenze asimmetriche e la politica monetaria da fattore di stabilizzazione potrebbe diventare una causa non voluta di frammentazione dei mercati finanziari.

C'è una guerra violenta, come tutte le guerre, ma questa impatta indirettamente anche la vita di questa parte di mondo che da decenni le guerre le ha viste e non vissute, da quella notte verde di Baghdad di un'altra estate di più di trent'anni fa. C'è l'inflazione che non vivevamo da decenni.

Sui trading floor sono pochissimi quelli che hanno vissuto fasi di tassi in rialzo, inflazione, volatilità e questo incrementa la suscettibilità del mercato a qualsiasi rumor, lancio d'agenzia, uno starnuto in qualche parte del mondo.

Ma oggi c'è anche qualcosa di completamente diverso, nuovo, potente. 

La lezione, almeno in parte, è stata appresa. L'Europa ha scelto di investire sulla convergenza tra i vari paesi, sul futuro dei propri cittadini. La Pandemia ci ha portato enormi perdite, lutti, costrizioni, ma anche il Next Generation Eu.

Il ruolo di quest'ultimo è spesso sottovalutato nel misurare l'effetto che ha avuto sul mercato del debito. Il ruolo del programma di acquisti per l'emergenza pandemica della Bce è stato centrale nel ridurre la volatilità, ma è stato Ngeu che ha dato al mercato una prospettiva di convergenza tra le economie europee e ridotto il valore del tempo accordato dai creditori, aumentato la fiducia e ridotto, quindi, il valore del tempo. L’aspettativa di innalzamento del potenziale di crescita, insieme alla crescita reale e a un inflazione che dopo la fiammata resterà più vicina al target della Bce, hanno meccanicamente innescato un circolo virtuoso di riduzione costante e duratura del rapporto debito/Pil.

Il ruolo di Draghi

Forse non a caso, una delle origini di quell'accordo può essere individuata in un editoriale di Mario Draghi sul Financial Times, in un suo discorso al meeting di Rimini in piena Pandemia, nell’enunciazione della necessità di ricorrere a un “debito buono”, per sostenere chi è più in difficoltà e rilanciare il potenziale di crescita dei singoli Stati e dell'Unione europea. Un debito produttivo,  nazionale e sovranazionale.

Forse non a caso oggi il Fondo monetario rivede al ribasso le stime di crescita di quasi tutto il mondo mentre alza, sostanzialmente, quelle dell'Italia.

Oggi molte cose sono diverse rispetto dieci anni fa. Siamo in piedi, saliamo una scala. A volte, come in questi giorni, ripiombiamo in un quadro di Escher, andiamo in giù proprio mentre stavamo salendo.

Oggi, però, abbiamo una lezione in più che possiamo trarre dalle parole di dieci anni fa e da quelle di oggi.

Conosciamo il prezzo della fiducia, del tempo, della competenza e della credibilità.

Sta a noi decidere cosa vogliamo essere, sta a ognuno di noi dire: «And believe me, it will be enough!».

Le opinioni espresse hanno carattere personale e non impegnano in alcun modo la responsabilità dell’Amministrazione di appartenenza.

© Riproduzione riservata