E’ stata l’unica vittoria del Sud del mondo, quello che non vinceva mai, e che non vincerà mai. E’ stata una delle più grandi utopie del Novecento, il riscatto dei poveri, il sogno momentaneamente realizzato di un’Argentina lontana e solitaria. E di Napoli, la città alla quale è stato l’unico a dare la felicità .

E’ stato il sogno del calcio puro, non corrotto. E’ stato una “cebollita” di dieci anni dell’Argentinos Juniors che compariva palleggiando tra il primo e il secondo tempo allo stadio della Boca e dagli spalti gli gridavano «continua, continua», mentre i giocatori adulti uscivano dagli spogliatoi e volevano mandar via quel ragazzino.

Era una cabecita negra, povero tra i poveri di Villa Fiorito, una delle tante “Villas Miseria” di Buenos Aires. Anche quando ha fatto i soldi, è sempre rimasto un povero coii soldi; mai diventato un borghese. Ha piegato -per troppo poco, però -  l’industria del calcio al suo genio, di cui peraltro nessuno ha mai capito veramente l’essenza.

Sì, c’era evidentemente un qualcosa nella connessione tra cervello e muscoli, che nessun altro aveva; c’era una conformazione anomala del suo bacino; c’era un occhio che prevedeva dove sarebbe andata la palla; c’era uno scatto del quadrato dei lombi che rese possibile – e solo a lui, in genere il più basso di statura in campo, - il cross impossibile dalla linea di fondo, la sospensione aerea contro la legge di gravità; ebbe la guarigione in cento giorni da un infortunio devastante, curati a suon di musica e di danza con la madre, dal più grande medico sportivo, il dottor Ruben Darìo Oliva; e poi tutto questo si è mischiato con la “mano dei Dios” del primo gol perché las Malvinas son argentinas, e del secondo gol – il gol più bello del mondo, secondo tutti -  che finalmente colpì al cuore il crudele, disumano jingoismo della signora Thatcher e del suo alleato cileno, il generale Pinochet; e poi ci fu quel grido di dolore che rivolse a noi – “hijos de puta!” quando lo stadio olimpico fischiò l’Argentina, rea di aver eliminato l’Italia, alla finale dei Mondiali del 1990.

Maradona sapeva che il grande business del calcio non l’avrebbe mai accettato; anzi, che lo odiava. Sapeva, e lo disse chiaramente diverse volte, di essere incompatibile con gli Avelange e la Fifa. Sapeva anche che sarebbe finito male, e che l’avrebbero dipinto come una foca ammaestrata e niente più. Non fece mai niente per ripulirsi, Diego.

Come un coatto nostrano, aveva il Che Guevara tatuato sul braccio sinistro e l’immagine di Evita Peron nel portafoglio; ci aveva messo del bello e del buono a spiegare a Fidel Castro come si colpisce la palla di testa (Fidel sosteneva che fa troppo male).

Era un leader nato, guidava la squadra in campo alla vittoria, portò il Napoli allo scudetto e alla coppa - ed era un Napoli che schierava Bruscolotti.

I suoi compagni si fidavano di lui, e lui li ripagava, li faceva crescere; è stato un capo che non è mai stato un capo, non ha mai dato ordini. Ho sempre in mente una partita del Napoli, in cui con le mani insegna a Careca come colpire la palla dopo un’azione sfumata: «Con dolcezza, con dolcezza».

Aveva questa intimità con il gioco, con il pallone,  che era molto femminile. Era molto musicale, non era un narciso.

Gli piacevano le feste, gli piaceva cantare, gli piaceva cucinare. Una volta, dal banco della cucina, gli cadde una mela sul pavimento e lui, sempre cantando, col piede sinistro (solo quello aveva di buono) la raccolse, la palleggò e la scodellò dal piatto in cui era caduta.  

Poi ci fu il declino, naturalmente. Rehab no no no, come avrebbe detto Amy Winehouse.

Ora che è morto, per favore non fate paragoni… Pelè, e tutto il resto. Diego era unico, un fanciullo divino, che ha provato – e spesso c’è riuscito – a far valere le ragioni dell’infanzia dei popoli.

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