Ricorre il 75° anniversario dell'approvazione da parte dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite della Dichiarazione universale dei diritti umani. Oggi come allora l'importanza di quel documento consiste nell'anteporre all'esercizio del potere l'inalienabile dignità inerente alla persona. Ciò ha consentito di costruire «un'architettura internazionale improntata al rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali di ogni essere umano».

Lo ha dichiarato il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in occasione della Giornata mondiale dei diritti umani. Così a seguire: «Tale anniversario si inserisce in una congiuntura caratterizzata da violazioni gravi e sistematiche dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario».

La tutela di quei diritti scolpiti anche nella nostra Costituzione – ha concluso Mattarella – rappresenta «una esigenza irrinunciabile ovunque e in ogni circostanza».

Lo sottolineo: ovunque e in ogni circostanza. Parole alte e sacrosante, che, tuttavia, se prese sul serio, dovrebbero farci arrossire. Per sottrarsi a una retorica celebrativa, non possiamo non contestualizzarle. Nelle stesse ore, un veto degli Usa inibiva al Consiglio di sicurezza dell’Onu intestatario della suddetta Dichiarazione universale, convocato d’urgenza dal suo segretario generale ai sensi dell’art.99 della Carta («minaccia alla pace e alla sicurezza internazionale»), una deliberazione dal contenuto a ben vedere minimalista ovvero per il cessate il fuoco umanitario a Gaza.

Una opposizione solitaria, tra i quindici membri del Consiglio.

Nonostante le inconfutabili motivazioni addotte dal segretario generale Guterres: «La popolazione di Gaza sta guardando l’abisso, la comunità internazionale deve porre fine al loro calvario … la brutalità perpetrata da Hamas non potrà mai giustificare la punizione collettiva del popolo palestinese». La fotografia di un inferno testimoniata concordemente da tutte le organizzazioni umanitarie non governative. Merita notare che le sesse sedi dell’Onu nella Striscia sono state bombardate, che oltre cento suoi operatori sono stati uccisi.

Con che ardire possiamo celebrare la Dichiarazione universale nel mentre si umilia e si paralizza l’autorità che l’ha proclamata? Conosciamo la litania delle critiche abitualmente mosse ai vistosi limiti di rappresentatività, di efficacia, delle regole che ne disciplinano le risoluzioni. Alla frequente ed evidente adozione di doppi standard.

Ma, domando, abbiamo di meglio con cui sostituirla? È saggio spingersi sino alla sua delegittimazione? Assistere passivamente all’aggressione al suo segretario generale che, per quel che può, fa solo il suo dovere? Già ora abbiamo un sussulto di imbarazzo nell’evocare la locuzione alta di “comunità internazionale”. Ma chi la incarna?

Nei conflitti in corso, spesso rivendichiamo se non una superiorità almeno una sensibilità peculiare dell’occidente per il valore universale assegnato ai diritti dell’uomo. Ed è storicamente provato il decisivo contributo fornito a tale universalismo dal cristianesimo e dall’illuminismo. Ma esso semmai dovrebbe accrescere la nostra responsabilità nel testimoniare quel patrimonio e le istituzioni che lo presidiano (l’Onu tra questi), nel non contraddirlo con i nostri comportamenti.

Nel caso specifico, il veto Usa suona ancor più contraddittorio se si considera che il contenuto della risoluzione non si discosta sostanzialmente dai reiterati (e inascoltati da Netanyahu) appelli di Biden alla moderazione e al rispetto del diritto internazionale umanitario. Salvo poi scontare la tradizionale riluttanza Usa a verbalizzarli e formalizzarli in un voto. Stendiamo un velo pietoso sulla inettitudine dell’Europa, che pure, per ragioni storiche, culturali e geopolitiche, dovrebbe marcare una propria relativa autonomia dagli Usa sul teatro mediterraneo ad essa tanto prossimo. E tuttavia, pur in un quadro dominato dalla inconsistenza europea, il segnale di una qualche sensibilità umanitaria si è levato da Spagna e Francia. L’Italia? Non pervenuta.

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