La fine era prevedibile e ampiamente prevista. Il premio “l’avevo detto” va a Steve Bannon, che dall’alba del sodalizio va dicendo che fra Donald Trump ed Elon Musk non poteva durare, e ora suggerisce perfino al presidente di andare a indagare la storia migratoria del sudafricano in cerca di ragioni per una deportazione, ma non era certo il solo.

Sulla rapidità della rottura e le modalità brutali con cui sta consumando i due protagonisti si stupiscono anche gli sceneggiatori più creativi, ma che la coppia politica più instabile del sistema solare fosse fatta per implodere non è una grande sorpresa.

Sono cose che succedono quando metti nella stessa stanza (ovale) un narcisista truffatore seriale ed eversore impenitente con istinti monarchici placcati d’oro e un geniale futurologo pieno di sé e di ketamina, che nella sua missione per dare all’umanità una vita interplanetaria è quasi accidentalmente diventato l’uomo più ricco dell’unico pianeta al momento a disposizione.

Da giovedì si sta consumando apertamente lo scontro, con fragoroso lancio di piatti via social: volevi solo i contratti miliardari per le tue aziende, senza di me non avresti vinto le elezioni, sei diventato pazzo, fondo un nuovo partito, ti taglio i fondi, dovrebbero farti l’impeachment e così via. Lo scontro fra personalità strabordanti di questo genere è un cane che morde l’uomo: una non-notizia.

La faccenda inaspettata, piuttosto, è che i due hanno litigato, in fondo, per una questione ideologica e politica. Depurata da tutti gli umori, i deliri e le allucinazioni del genere “paura e delirio alla Casa Bianca”, la rottura si consuma sull’inconciliabilità fra due visioni: quella nazionalista-protezionista che non disdegna uno stato ingombrante come quello descritto nel “big, beautiful bill” di Trump, e quella libertaria-futurista che taglia le spese con la motosega donata da Javier Milei, abbatte gli sprechi con Doge e pensa che “dazi” sia la parola più brutta del vocabolario (notoriamente il presidente la considera la più bella).

Trump da sempre scarta, consuma e sputa chiunque intorno a lui venga a contatto con il suo ego. Il primo mandato è stata una masterclass di licenziamento seriale, ma la natura della rottura con Musk non va letta solo nell’ottica della fiera delle vanità: è la conferma che la speranza di razionalizzare dall’esterno Trump, facendone il veicolo di un qualche progetto politico è, questa sì, vana.

L’idea del tecnocrate era che Trump potesse fare alla destra qualcosa di analogo a quello che aveva fatto il “fusionismo” di Ronald Reagan, armonizzatore di diverse correnti conservatrici che condividevano poco o nulla. I Chicago boys a braccetto con i telepredicatori evangelici, a loro volta a braccetto con gli isolazionisti in stile Pat Buchanan, un proto-Trump se ce n’è mai stato uno.

La ragione necessaria della fusione reaganiana era l’anticomunismo, quella fra Trump e Musk l’antiwokismo. Ma quest’ultima non è stata evidentemente una ragione sufficiente. I due si sono divisi su visti ai cervelli qualificati, sui dazi, sulle spese dello stato: non sono cose di poco conto. Dicono di una certa concezione della società, dell’economia, del potere, delle relazioni internazionali.

Certamente sono elementi che si mescolano nel vortice dei conflitti di interessi, delle mire della Silicon Valley, della sete insaziabile di potere e si alimentano dei desideri perversi di arricchimento personale finalizzato forse a farsi una nuova vita su Marte, ma hanno una loro forza nella storia del divorzio politico più importante della seconda era trumpiana. Non è soltanto un altro caso psichiatrico: è politica.

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