Gentile Direttore,

oggi si celebra la Giornata internazionale dei diritti del migrante e riteniamo sia necessario invitare il governo a un approfondito sulla gestione del fenomeno migratorio, considerato che l’impianto legislativo italiano è fermo al 2002.

Negli ultimi mesi abbiamo riscontrato una nuova sensibilità dell’opinione pubblica italiana, colpita dal dramma che stanno vivendo gli afgani e, più di recente, da ciò che accade al confine tra Bielorussia e Polonia. Ma sappiamo bene che i migranti arrivano ormai da più di dieci anni soprattutto via mare. E che muoiono in tanti. Non numeri, ma esseri umani come tutti noi.

Cambiare le leggi

Una via d’uscita per gestire il fenomeno in maniera diversa esiste. E non è quella di continuare ad appellarsi all’Europa – inutilmente -, ma di decidersi a cambiare qualcosa cominciando dal nostro paese, per potersi poi sedere ai tavoli europei molto più forti e incisivi.

Una revisione dell’attuale legislazione sulla gestione del fenomeno porterebbe benefici in termini demografici, occupazionali ed economici e permetterebbe all’Italia di organizzare l’arrivo dei migranti in modo ordinato e regolare. Non obbligando più nessuno a mettersi nelle mani di trafficanti di vite, nonché a morire per mare.

Oggi, in Italia, per via della legislazione nazionale vigente, uno straniero può immigrare, e poi restare regolarmente nel nostro paese, praticamente solo se all’arrivo fa richiesta di asilo e ottiene, successivamente, lo status di rifugiato. Ma, la verità è che, ormai dal 2011, continuiamo a constatare che l’80/85 per cento dei migranti che arrivano non hanno diritto all’ottenimento dello status di rifugiato. Sono cosiddetti migranti economici.

Obbligati dalla nostra attuale legislazione a venire – e spesso a morire - via mare, o per altre vie molto pericolose, per fare richiesta di asilo per le specifiche motivazioni previste dalla normativa esistente, pur essendo semplicemente in cerca di sopravvivenza o di una vita migliore.

Per la legislazione esistente la maggior parte di coloro che continueranno ad arrivare nel nostro paese, non ha diritto ad entrare e a restare regolarmente nel nostro paese.

In tutto questo, i demografi prevedono per il 2050 una decrescita demografica che ci porterà ad essere circa 6 milioni di Italiani in meno. Inoltre, ogni anno tra i 100 e i 200mila italiani emigrano.

L’”invasione”

Il nostro sistema pensionistico e la nostra economia rischiano un imminente collasso di cui nessuno parla seriamente. Ora, per far fronte a quest’ultimo punto l’Italia deve certamente prevedere politiche che incentivino le nascite e che prevengano l’emigrazione. Questo è fuori discussione. Ma possiamo, altresì, prevedere di rivedere la gestione del fenomeno senza gridare all’”invasione”. In forma diversa!

Da anni i dati delle agenzie internazionali ci dicono che gli immigrati in Europa contribuiscono per il 70 per cento alla flessibilità occupazionale, di cui ha bisogno anche l’Italia, e che avremmo bisogno di 3 milioni di lavoratori immigrati ogni anno in Europa, Italia inclusa. La pandemia da Covid-19 ha messo in risalto quanto i lavoratori immigrati sopperiscano a quei lavori che i nativi non vogliono più fare (gli esempi sono tanti, ma per menzionarne solo tre che ci riguardano: raccolta di prodotti alimentari in campo agricolo, lavori domestici, bassa edilizia).

Le statistiche ufficiali ci dicono che gli stranieri regolarmente presenti nel nostro paese lavorano legalmente e contribuiscono per circa il 9 per cento del Pil, con un surplus positivo per le casse dello stato che negli ultimi 5 anni ha toccato tra i 500 milioni e i 3 miliardi di euro, a seconda dell’anno e delle modalità di calcolo tra entrate e uscite per immigrati in arrivo e stranieri residenti.

Punti fermi quelli sopra esposti, che sintetizzano una narrativa ignorata dai media e dall’estremismo politico. Ma da qui si può partire per realizzare il cambiamento che riteniamo necessario. Quello di rivedere la legislazione esistente per prevedere che i migranti possano entrare in forma regolare non soltanto per richiedere lo status di rifugiato, ma, anche, per lavorare qui da noi in modo regolare. 

Basterebbe rivedere la legislazione vigente, riaprendo alle quote di entrata per motivi di lavoro, avendo, magari, prima concordato (come già fanno governi più lungimiranti del nostro) con Confagricoltura, Confartigianato e Confindustria, nonché con la Conferenza Stato-Regioni e l’Associazione nazionale comuni italiani, settori economici ed aree geografiche dove c’è più bisogno di lavoro e crescita demografica nel nostro paese.

Questo eviterebbe anche di avere migliaia di immigrati irregolari che lavorano in nero e sono canalizzati verso degrado e marginalità, anziché essere inseriti in percorsi di accoglienza e integrazione a beneficio di tutti, e permetterebbe di organizzare un sistema di accoglienza e integrazione strutturale e non perennemente emergenziale, ponderato ed efficace, potendo prevedere numeri e luoghi di entrata ogni anno.

Ma perché una revisione in tal senso dovrebbe ridurre gli attuali arrivi di immigrati via mare nel nostro paese, nonché dare forza al nostro paese nelle interazioni a livello europeo e internazionale?

Ciò sarebbe possibile in considerazione del fatto che i paesi di origine sono interessati, più di ogni altra cosa, alle rimesse (i denari spediti indietro) che arrivano dai loro connazionali che risiedono e lavorano regolarmente all’estero. Solo a titolo informativo: nel 2020, le rimesse globali trasmesse al proprio paese dai migranti che lavorano all’estero ammontarono a 470 miliardi di dollari. E si stima che almeno un altro 40 per cento non sia tracciabile. Mentre l’aiuto pubblico allo sviluppo e gli investimenti privati esteri nei paesi in via di sviluppo sono stati rispettivamente di 161 e 229 miliardi di dollari, per un totale di 390 miliardi di dollari (Banca Mondiale).

È facile pensare che i paesi di origine sarebbero interessati a fare accordi con il nostro governo e, successivamente, ancor di più con l’Unione europea, per limitare e controllare le uscite dai loro paesi, se si potesse garantire loro che chi parte si assicura di lavorare e risiedere regolarmente nel paese di destinazione, con possibilità di integrarsi e portare un valore aggiunto alla propria vita, al Pil del paese di origine e all’economia del paese ospitante.

Si potrebbe tornare a rilasciare i permessi di uscita e i visti di entrata in forma ponderata, attraverso i nostri Consolati nei paesi di origine. Prevedere formazioni pre-partenza in loco, anche per chi è più fragile e ha meno possibilità, e concordare modalità per gli eventuali rimpatri dal nostro paese coordinate dall’Oim (Organizzazione Internazionale per le Migrazioni), in forma ordinata e rispettosa dei diritti umani.

Tutte le anime politiche del nostro paese sembrano inermi. Un silenzio che non tace e che fa aumentare la responsabilità politica per i morti. Speriamo che almeno questo governo a maggioranza allargata possa far riflettere, dati alla mano. E che qualcuno agisca, una volta per tutte.

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