La sentenza dei giudici di sorveglianza che rifiuta i domiciliari ad Alfredo Cospito porta ad alcune riflessioni interessanti. L’argomentazione principale dei giudici sembra questa.

Le condizioni di salute di Cospito sono precarie e potrebbero essere incompatibili con questo regime carcerario (su questo i giudici si dividono: per quelli di Sassari la salute di Cospito richiederebbe un differente regime, per quelli di Milano no).

Tuttavia, queste condizioni di salute secondo entrambe le corti non giustificano la concessione dei domiciliari perché Cospito si è messo da solo in queste condizioni, e lo ha fatto per ottenere, così facendo, i suoi scopi.

Cospito usa il corpo come arma di ricatto

L’idea, dunque, è che Cospito stia usando il suo corpo per certi fini e che concedergli i domiciliari significherebbe cedere al ricatto.

Ho già sostenuto su questo giornale che quello di Cospito non è un ricatto, per la natura morale delle sue richieste e l’assenza di minacce a terzi, e non lo è neanche per chi disapprovi le sue idee. Ma è interessante quello che la posizione dei giudici aggiunge alla tesi del ricatto.

I giudici suggeriscono che chiunque si metta da solo in certe condizioni di disagio e usi queste condizioni di disagio non merita aiuto per alleviarle.

Assumendo (cosa che i giudici di Milano in realtà negano) che la concessione dei domiciliari sia una specie di cura (forse preventiva) delle malattie che Cospito si è procurato e si potrebbe procurare, l’idea è che questa cura egli non la meriti, perché si è messo da solo nei guai e l’ha fatto per testimoniare certe idee.

Chi scegliere di ammalarsi 

Mi chiedo se ai giudici sia concesso di argomentare talmente tanto nel merito da non poter estendere la loro posizione ad altri.

Perché se questa posizione si estendesse, ne deriverebbe che un cittadino che si espone volontariamente a pericoli (per esempio, un cittadino che si espone al contagio di un virus) non merita le cure dello Stato.

E ne deriverebbe pure che un cittadino che, impegnato per esempio in una dimostrazione per ideali politici, si procuri danni fisici (un giovane che cerca di organizzare un picchetto di fronte a una fabbrica, e per farlo mette in pericolo la sua incolumità fisica, per esempio trasportando dei cartelli ingombranti su una strada dove le macchine corrono ad alta velocità) non dovrebbe essere curato, perché l’azione che ha portato alla sua condizione era volta a ottenere fini politici.

Per evitare queste conseguenze, bisognerebbe sostenere che Cospito non è un cittadino come gli altri, cioè che un detenuto non è un cittadino con gli stessi diritti alla salute degli altri, o che privarsi del cibo non è simile a correre dei pericoli per organizzare una manifestazione. Ma non è appunto uno sciopero?

Giudici e bioetica

Peraltro, la posizione dei giudici sembra contrastare, e anche questo è interessante, con il parere del Comitato Nazionale di bioetica, che sul caso Cospito è stato spinto ad intervenire dal ministro Nordio (nonostante per statuto questo organo non possa pronunciarsi su casi così specifici).

Anche il ministro Nordio, nei suoi quesiti, aveva insistito sul fatto che i comportamenti di Cospito (in quel caso le direttive anticipate, con le quali egli rifiutava trattamenti salvavita in caso di perdita di conoscenza) erano animati da finalità estranee alla condizione clinica personale.

In risposta e all’unanimità i membri del Comitato hanno sostenuto che «lo sciopero della fame rappresenta un modo, sia pure estremo, di richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica su situazioni ritenute ingiuste o su diritti che si desidera rivendicare» e quindi esprime la «libertà morale del soggetto», che va sempre «pienamente rispettata», e in particolare quando proveniente da chi altri mezzi di esercitare la libertà non li ha.

«Chi sciopera», scrive il Comitato, «mette in gioco la vita come modo per indurre un esito, senza usare violenza su alcuno». Per questo non è un ricatto e per questo i fini di Cospito non possono essere usati per negargli condizioni migliori, se egli le chiede.

Farlo significa punire l’esercizio della sua libertà. A maggioranza, il Comitato osserva che negli organismi internazionali il suicidio è un «problema di salute pubblica», quali che ne siano le motivazioni: cioè anche quando il detenuto «abbia per obiettivo di ottenere il trasferimento in ospedale o in un’istituzione meno restrittiva».

E, sulla base di queste considerazioni, gli esponenti della mozione di maggioranza concludono che bisogna bilanciare il principio di autodeterminazione con la tutela della salute del detenuto, anche osservando l’«evoluzione degli intendimenti» del detenuto.

La richiesta di Cospito sembra proprio essere una evoluzione delle sue idee, oltre che delle sue forze. La tutela della sua salute, bilanciata col rispetto per la sua autodeterminazione, dovrebbe indurre ad accettare con sollievo la richiesta di domiciliari, non ad accanirsi a censire le sue motivazioni.

Anche qualche riflessione strategica potrebbe aiutare, se non i giudici almeno i politici. Un Cospito ai domiciliari, alimentato decentemente, perderebbe molto del suo presunto potere di ispirare gli anarchici, sgonfiando forse le proteste.

Questa ossessione per il ricatto e per la linea della fermezza ricorda invece tempi peggiori e ostinazioni che non hanno portato a nulla di buono.

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