Con Matteo Salvini che precetta a destra e a manca si torna indietro, non al fascismo come alcuni temono o hanno detto, ma addirittura ancora prima, a fine Ottocento. Guardate un po’ cosa ho scoperto nelle carte dell’Archivio di stato di Roma.

Il Pungolo, un giornale che ha come sottotitolo “Corriere di Milano”, il 9-10 dicembre 1889 riportava la notizia che il tribunale di Milano aveva pronunciato una sentenza di «non luogo a procedere» nei confronti di 18 contadini di Cuggiono, un comune del milanese, accusati «per reato di sciopero». Non luogo a procedere significa che i 18 contadini non avevano commesso alcun reato, men che meno il reato di sciopero. Eppure erano stati mandati davanti a un giudice proprio con l’imputazione di aver commesso il «reato di sciopero». È il sogno di Salvini, definire per legge il reato di sciopero. Pensa che lo sciopero, per il fatto stesso che venga proclamato, sia un reato da punire.

Un giudice a Milano

Il giornale prosegue dicendo che «dopo la lettura della sentenza il presidente, rivolgendosi agli imputati, ebbe a pronunciare le seguenti parole: “Il tribunale vi ha assolti: ritornate alle vostre case e fate voto, come io ve lo auguro, di trovare i vostri padroni, se non più caritatevoli, per lo meno più umani”».

Ecco, un giudice di fine Ottocento, a Milano, capisce che i contadini di Coggiono non hanno fatto lo sciopero per divertirsi ma perché, ridotti alla fame, erano stati costretti a scioperare dai padroni, che non erano né caritatevoli né umani. Dopo 134 anni, Salvini ancora non l’ha capito. E sostiene che lo sciopero si fa per allungare il fine settimana, dimenticando di dire che chi sciopera ha la busta paga decurtata, cioè perde soldi.

I contadini di Cuggiono non erano soli, perché a fine Ottocento una moltitudine di scioperi investì moltissimi comuni del nord e tutti chiedevano aumenti salariali e riduzione dell’orario di lavoro. E ogni volta arrivavano carabinieri, poliziotti, soldati. Adesso basta un ministro con un’ordinanza di precettazione. È la velocità della società moderna.

Ma non è finita qui. Il Pungolo censura il presidente del tribunale e dice: «Non facciamo commenti parendoci superflui; ricordiamo solo, a quel magistrato, che il suo compito è di amministrare giustizia e non di fare dei discorsetti politico-sentimentali, che, fatti anche con la migliore intenzione di questo mondo, possono produrre delle conseguenze assai gravi». Il commento lo fa, il giornale, eccome se lo fa, e anche pesante, seppure con toni misurati e garbati. Il giornale, è evidente, difende gli interessi di classe della borghesia lombarda, ed è logico che scriva quel commento. È preoccupato, si vede, per quella sentenza e per quel «discorsetto» del presidente del tribunale, perché la critica ai padroni non si può, anzi non si deve fare nel modo più assoluto, perché può «produrre delle conseguenze assai gravi». Può spingere altri operai a scioperare, ad esempio. Oppure può suscitare una ribellione contro l’ordine pubblico quando carabinieri, poliziotti, esercito per sedare le masse degli scioperanti intervenivano e li portavano in galera. Nelle galere di allora.

I padroni devono essere lasciati in pace, ieri come oggi. Soprattutto devono essere lasciati in pace i padroni di oggi che stanno tutti al governo.

Ultima notazione: il giornale usava il termine “padroni”, restituendo anche nei termini la vera realtà del conflitto di classe. Oggi se dici “padrone” ti guardano male. Devi dire “datori di lavoro” o “imprenditori” anche quando alcuni di loro si comportano come i padroni di fine Ottocento. A volte anche peggio. Ma dire “padroni” non è fine.

© Riproduzione riservata