I dati dell’astensionismo francese (oltre il 65 per cento) alle regionali fanno riflettere. Addirittura in questo caso l’astensione è stata trasversale e non ha favorito nemmeno le liste populiste o di estrema destra. Nel loro complesso gli elettori francesi sembrano mandare un messaggio: nessuna manovra tattica (in politichese antico o moderno) può riuscire ad attrarre consensi in questo momento così delicato di fuoriuscita dalla pandemia.

Questo e altri segnali paiono dirci che gli europei sono insoddisfatti della qualità delle loro democrazie. Il fenomeno si sta allargando alle democrazie più nuove o fragili, come quelle latino-americane, africane e asiatiche. Viene da chiedersi se – come sostiene Putin – la democrazia liberale è malata in maniera irreversibile.

Viale del tramonto

In occidente sotto accusa è la lunga crisi economica iniziata nel 2008 e mai davvero terminata, che ora si lega a quella post-pandemica. Nel ceto medio molti sospettano che non si voglia frenare l’impoverimento progressivo e si diffonde il presentimento che democrazia non faccia più rima con uguaglianza.

Le persone non si adattano al crescente divario ricchi/poveri. Da qui discendono le amarezze e la crescita del populismo con il suo corredo di partiti xenofobi, passioni separatiste o chiusure demagogiche. In tutta Europa sono in atto fenomeni disgreganti, diversi ma ugualmente pericolosi (Brexit; separatismo scozzese o catalano; partiti di estrema destra; erosione dei diritti umani e dell’indipendenza della magistratura in Ungheria e Polonia ecc.).

In generale si assiste allo sminuzzamento del quadro politico per cui è difficile creare coalizioni sia a sud che a nord d’Europa, senza differenze e con qualsiasi legge elettorale. Ancora peggiori appaiono le disillusioni in altri universi, come le ripercussioni del fallimento delle speranze suscitate dalle Primavere arabe, piombate nel gorgo della grande guerra mediorientale in corso (Siria, Iraq, Yemen…); la fine di un ciclo politico in America Latina (tra cui la gravissima crisi istituzionale brasiliana); i continui stop-and-go delle esperienze democratiche africane; l’aggressiva dialettica tra Cina e Usa sui diritti umani e così via.

Quasi ovunque aumenta un generale sentimento di sfiducia nella democrazia al punto che molti cittadini di paesi compiutamente democratici iniziano a dubitare dell’effettiva efficacia del sistema. Tale crisi inizia a essere attribuita alla sua stessa essenza. Gli esperti chiamano tale sindrome “democrazia della diffidenza”: una situazione in cui non ci si fida più delle istituzioni stesse. Molti si chiedono se il sistema democratico occidentale sia adattato alla globalizzazione che necessita di decisioni rapide e non può permettersi il lusso di lungaggini come le liturgie parlamentari.

Ci sono minoranze (di ogni tipo) frustrate e impazienti perché non vedono sbocchi o, viceversa, che vengono percepite come ostacoli. C’è chi invoca “limiti” da porre, sempre più insidiosi, in reazione alle emergenze del terrore e alla necessaria unità nazionale (dal Patriot Act all’idea del decadimento dalla cittadinanza, alle limitazioni della magistratura ecc.) o alla crisi dei rifugiati. La democrazia in sé stessa è sottoposta a valutazione critica permanente, anche se è noto che si tratta di un sistema in continua evoluzione, con un susseguirsi di adattamenti (si pensi agli emendamenti della Costituzione americana, alle cinque repubbliche francesi o alle “revisioni per via giudiziaria” in vari stati come anche l’Italia) e per ciò stesso esposta a un rischio regressivo.

Rischio democratura

Tuttavia la sfida degenerativa delle “democrature” non è nuova nella storia delle democrazie: lo avevano capito i fondatori dell’ideale europeo quando si resero conto, nel secondo dopoguerra, che un ritorno senza scosse alla situazione precedente (l’heri dicebamus) era impossibile. Come aveva scritto Hannah Arendt: «Il problema del male sarà la questione fondamentale della vita intellettuale europea nel dopoguerra»: nel dopoguerra i demoni dell’Europa erano ancora tutti lì, vitali e micidiali.

Con un’Europa a terra, il rischio era quello di nuovi autoritarismi, magari mitigati dall'appartenenza alla sfera d’influenza americana: gli esempi del franchismo spagnolo e del salazarismo portoghese stavano lì a dimostrarlo.

L’intuizione della generazione democratica degli anni Quaranta e Cinquanta fu quella di “sdrammatizzare” la politica, optando per una via che avrebbe permesso di non abbandonare la democrazia. La scelta del presidente del Consiglio francese, il cattolico Robert Schuman, di iniziare la costruzione europea dalla Comunità europea del carbone e dall’acciaio (l’entrata in vigore della Ceca nel 1952), non fu solo dettata dal fatto che tali materie erano state oggetto di numerosi conflitti e alla base dell’industria bellica, ma che si doveva cambiare scenario rispetto al patriottismo, al nazionalismo e alle idee ed emozioni che avevano animato i paesi europei fino ad allora. Si temeva che su quella strada la democrazia, e lo stato stesso, non avrebbero retto.

Si prese l’avvio, per così dire, da una materia indolore, quella economica, del lavoro e dei prezzi bassi, in modo da favorire la ricostruzione, assieme ad una certa sensibilità sociale. Alla fine del conflitto e in mezzo a immani distruzioni, gli europei infatti si guardavano con diffidenza e rancore. Se fossero stati chiamati a esprimersi non avrebbero mai votato a favore dell’unità europea. La maggioranza auspicava governi forti per ripristinare l’ordine e rivolgeva le sue speranze agli Stati Uniti, mentre i comunisti – influenti anche in alcuni paesi dell’Europa occidentale – guardavano a Mosca. Tutti volevano la cancellazione della Germania dalla carta geografica.

L’incertezza era massima: in tale frangente perché mai i francesi avrebbero dovuto unirsi agli odiati tedeschi che per due volte nel corso del secolo avevano tentato di cancellarli? Per superare tale difficile clima, ricostruire il continente e difendere la democrazia, i democristiani francesi al governo scelsero la pragmatica via “funzionalista”: una progressiva integrazione economica europea. I loro equivalenti tedeschi non si fecero sfuggire l’occasione. L’unità istituzionale – che alcuni circoli intellettuali laici avrebbero preferito – sembrava troppo astratta e sarebbe (forse) venuta dopo. L’urgenza era una sola: sciogliere i risentimenti e proteggere la rinascente democrazia attraverso la realizzazione del benessere comune: welfare e crescita.

Nel suo Dopoguerra lo storico britannico Tony Judt descrive così tale processo: «Fu per scongiurare il ritorno agli antichi demoni (disoccupazione, fascismo, militarismo tedesco, guerra, rivoluzione) che l’ovest si avviò per la nuova strada sulla quale oggi siamo abituati a procedere. La pacifica e collaboratrice Europa post-nazionale, fondata sul sistema assistenziale, non è nata da un progetto ottimistico, ambizioso e lungimirante, come si immaginano con devoto sguardo retrospettivo gli odierni euro-idealisti, ma è stata la figlia insicura dell’ansia. Sotto l’ombra della storia, i leader hanno realizzato riforme sociali e costituito nuove istituzioni per tenere a bada il passato».

Le riforme avevano una direzione non ideologica: al centro c’è lo stato, non quello autoritario espressivo di “valori” o virtù nazionali ma uno stato tutto concentrato sull’assistenza e sulla produzione della ricchezza.

Quando oggi si critica l’eccesso di statalismo non si deve dimenticare che soltanto stati intenti alla prosperità dei cittadini potevano riuscire nell’immensa opera di ricostruzione. Paradossalmente avvenne un doppio movimento: da una parte gli stati europei si occuparono di tutto, intervennero ad ogni livello e a ogni età della vita del cittadino; dall’altra iniziarono assieme un processo di abbattimento delle frontiere e di devoluzione del potere. Ciò avvenne tra Scandinavi, con il Benelux, il Consiglio d’Europa, l’Efta ecc. Per i sei paesi fondatori della Ceca e della comunità europea, il processo fu più deciso. Dobbiamo a questa storia il metodo per salvare la democrazia dai pericoli degli stati d’animo, dalle emozioni, dai nazionalismi: occuparsi prima di tutto del benessere partendo dagli ultimi, facendo giustizia e mirando all’uguaglianza. È solo su questa base che si salva la democrazia.

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