Uno splendido articolo di Ernesto Galli di Loggia sul Corriere della Sera di ieri, prendendo spunto dall’autobiografia di Andrea Carandini, ripropone il tema del ruolo, e dell’assenza, della classe dirigente italiana.

La storia italiana, Galli della Loggia ce l’ha insegnato nei suoi scritti, si è mossa tra formalismi e sregolamenti di passioni, tra acquiescenze e rivolte. Non si è creato un humus cultuale in cui la responsabilità personale e il perseguimento di obiettivi collettivi prosperassero.

L’ assenza di classe dirigente dipende, più che dalla dismissione dal suo ruolo nell’ indirizzare il corso degli eventi, dalla inconsistenza politico-culturale della borghesia in senso lato: non solo aristocrazia e  grande borghesia ma quell’ ampio ceto medio-alto di professioni e di imprenditori che non ha mai sostenuto convintamente una forza politica che esprimesse valori modernizzanti (per non dire liberali o democratici).

Senza affrontare tutto il percorso unitario e limitandoci al dopoguerra, per quale motivo l’élite che guidò la ricostruzione e lo sviluppo impetuoso di quegli anni non ha avuto eredi? Perché non si è sviluppata una classe cosciente del suo compito e dei suoi “doveri” verso la collettività nazionale, e si è invece rifugiata nel perseguimento del suo interesse particolare? E perché ,sul piano politico, i partiti laici e la componente anch’essa laica della Dc si sono dissolti senza lasciar  quasi traccia?

Ha ragione Galli della Loggia ad indicare nei convegni degli Amici del Mondo un laboratorio riformista degno di una grande classe dirigente, e lontano mille miglia da chi oggi si dichiara riformista, svilendo fino alla caricatura la grande stagione del New Deal roosveltiano e del laburismo inglese e scandinavo.

In realtà, non mancano in Italia esperienze di eccellente livello dedite al “bene comune”. Ma la politica non sa cosa farsene di queste proposte, e lo stesso governo Draghi delude su questo piano in quanto, finora, si è dimostrato tutt’altro che aperto alle iniziative della società civile.  Questi gruppi non arrivano a fare massa critica perché non trovano sufficienti sponsor nella classe dirigente. 

L’uscita dalla politica

Il problema però, contrariamente a quanto affermato da Galli della Loggia, non si è posto all’indomani del mitico ’68 a causa della infatuazione dei giovani rampolli delle elite per il marxismo. No, quella generazione è andata altrove, fuori dalla politica: si contano sulla punta della dita quanti hanno trasferito il loro impegno giovanile nei partiti.

Quella generazione non ha prodotto una nuova classe di leader politici significativi, diversamente, per esempio, da quanto è accaduto nei Verdi tedeschi, negli anni Novanta. Molti sono andati a orientare l’opinione pubbliche operando nella comunicazione, dai media alla pubblicità, al marketing, alla formazione.

I tanti che non avevano brandito il libretto rosso di Mao hanno preso una strade diverse. La generazione  dei baby-boomers - e dei suoi figli - si è divisa in due parti. Una ha introiettato i valori “post-aterialisti” della realizzazione personale e della qualità della vita, ed è stata protagonista della stagione dei diritti civili degli anni Settata e di  quella più recente, degli anni Duemila.

Un’altra ha trovato nel tardocraxismo esausto e depotenziato delle tante speranze di modernizzazione, nonché travolto dal suo delirio affaristico,  e poi nel berlusconismo, la ratio per dedicarsi a far soldi e per occuparsi, ancora, come una maledizione storica, del proprio particolare.

Al bivio

Il conflitto dell’ultimo quarto di secolo è con quale di queste due componenti sociali si sia nutrita la classe dirigente. Grosso modo, il Pd rappresenta la prima declinazione, e la destra forza-leghista la seconda. Nessuna è diventata egemone, l’ una per debolezza politica pur avendo sfondato nei ceti medio-alto urbani, l’altra per parrocchialismo e astenia etico-culturale. Questa divisione, e la scarsa capacità-convinzione della sinistra a esercitare una funzione di guida, segna le presenti difficoltà.

Alla sinistra spetterebbe il compito di portare a sé quella massa indistinta e “inarticolata”, come avrebbe detto il politologo Stein Rollak, rappresentata dai Cinque stelle, allo scopo di far entrare pienamente nello stato e nelle istituzioni quelle componenti sociali e politiche che vi si sono affacciate per la prima volta. E poi proiettarle verso ruoli di classe dirigente per rimpinguare e rinsanguare l’asfittica élite nazionale. Con tutti i rischi del caso, ovviamente.  Grava ancora sul nostro sistema politico il fallimento del tentativo di Pierluigi Bersani, all’indomani delle elezioni del 2013, di coinvolgere al governo i Cinque stelle. Un’altra occasione mancata?

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