La classe dirigente è ancora affetta dallo stesso strabismo che la colse un decennio fa quando idolatrò il governo di Mario Monti, e in ispecie la sua figura. Azioni e valutazioni di allora si attagliano alla situazione odierna.

Per esempio, l’invocazione di un intervento salvifico del presidente della Repubblica, ora per restare al Quirinale, allora per salvare il paese dal naufragio a cui lo portava il governo Berlusconi; il sospiro di sollievo per un governo di tecnici e super-partes sostenuto da tutti salvo dalle formazioni estreme a destra (la Lega) e a sinistra (Sel).

E poi l’iniziale, entusiastico consenso da parte dell’opinione pubblica; e infine l’aspettativa di un trionfo della lista capitanata da Mario Monti alle elezioni politiche del 2013 (senza vedere lo tsunami grillino).

Questo quadro si ripete, con alcune sfumature e alcune aggravanti. La prima è che si continua a sollecitare irresponsabilmente il presidente Matterella a infrangere di nuovo una lunga prassi, e cioè ad accettare di rimanere al Quirinale. Con la clausola, a volte taciuta a volte palese, che la riconferma sarebbe a termine, fino alle prossime elezioni.

Una presidenza à la carte, un altro sfregio istituzionale, a dimostrazione che in Italia le regole possono essere molto flessibili. Con ovvie conseguenze sulla loro credibilità.

Un’altra riguarda l’intronazione di Mario Draghi alla presidenza del Consiglio ad infinitum, per una sorta di volere del popolo, misticamente interpretato dai cantori della classe dirigente. Draghi “deve” rimanere alla guida del paese perché solo lui ci può condurre verso la terra promessa del Pnrr.

Certo, Draghi è una persona di grande qualità. Ma questo non consente di sorvolare sui princìpi su cui si fonda un regime democratico parlamentare.

La sospensione della politica decretata quando Mattarella incaricò Draghi al di fuori di ogni “formula politica“, non può che essere temporanea. Prima o poi, meglio prima che poi, il governo deve essere indirizzato da una maggioranza politica, espressione della volontà dei cittadini, non di chi benevolmente giudica quale sia il nostro interesse.

La prossima elezione del capo dello stato, dove è indispensabile si insedi per sette anni una personalità di esperienza e sicura affidabilità democratica – non novizi/e né usurati politici di lungo – dovrebbe fornire l’occasione per ridiscutere il profilo politico del governo. Con o senza nuove elezioni.

Già si vedono i contraccolpi di una maggioranza “innaturale”. Non è concepibile che un partito – la Lega – voti contro un provvedimento del governo e tutto continui come prima. Se non c’è un chiarimento politico, significa che il governo si ritiene indipendente dalle valutazioni dei partiti.

Questo cortocircuito rischia di far saltare il rapporto tra istituzioni e cittadini in quanto quest’ultimi non si sentirebbero più depositari della decisione finale attraverso il voto. Così il solco tra opinione pubblica e istituzioni si allarga. E a far tacere queste preoccupazioni sistemiche non vorremmo venisse riproposto un ritornello del tipo “meno male che Mario c’è”.

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