Mentre i partiti si stringono a coorte di Mario Draghi in quello che appare in alcuni casi un voltafaccia da treccartari di strada, e in attesa di leggere il programma dell’ex presidente della Bce per valutarne ampiezza e profondità e comprendere quali e quanti rospi i partiti dovranno a turno baciare o ingerire, è utile alzare lo sguardo sulla prospettiva “europea” del nostro paese, quella sorta di parola magica grandemente fraintesa e utilizzata come una clava o un passepartout da una classe politica che morirà di tatticismo portandosi dietro il paese.

Da “ce lo chiede l’Europa” come irritante invocazione a una entità superiore quasi divina, confusa con gli interessi nazionali e intergenerazionali (non ce lo chiede l’Europa ma il benessere delle prossime generazioni di italiani), ai “pugni sbattuti sul tavolo” europeo, con approccio sindacal-antagonista a uso domestico, scordando la valutazione di fattibilità di intessere alleanze con altri paesi, sino alle maggioranze “europeiste” e alla “maggioranza Ursula”, tutto il nostro lessico politico domestico conferma il proprio provincialismo e la propria miopia.

Il rapporto con l’Europa non può essere analizzato se non in termini di integrazione, cooperazione e competizione tra stati. Basterebbe questo per evitare, di volta in volta, di vedere la Ue come astratta controparte negoziale di un gioco in prevalenza conflittuale o entità salvifica a prescindere.

Analizzare la struttura economica di un paese e il tipo di integrazione economica globale serve a fornire una prima indicazione delle nostre potenziali alleanze. Il fatto che le regioni del Nord italiano siano saldamente integrate nelle catene di fornitura della manifattura tedesca dovrebbe essere un primo suggerimento di politica estera, di quelli che neppure richiedono troppo sforzo analitico. A un livello più strutturato di valutazione, è evidente che l’integrazione nelle catene di fornitura può avvenire a differenti gradi di produzione di valore aggiunto.

Le strategie

Detto in soldoni, si possono ospitare sul proprio territorio impianti di assemblaggio dell’industria tedesca dell’auto, come fa l’Ungheria, oppure fornitori di componentistica avanzata, come accade a noi italiani. Per mantenere e accrescere questa seconda virtuosa opzione, serve un sistema paese in cui istruzione, politiche del lavoro e welfare non siano orientate alla preservazione dell’esistente. Approccio, quest’ultimo, apparso sinora prevalente in Italia e destinato al fallimento negoziale in Europa.

Più che dalla moneta unica, l’Italia è stata infatti affondata dai limiti europei agli aiuti di stato, che ci impediscono di tenere in vita aziende e settori in declino spesso non reversibile ma che hanno il “vantaggio” di catturare il legislatore per tentare di ottenere protezione. Non è un caso che, dalla sospensione dei vincoli sugli aiuti di stato, conseguente alla pandemia, nel nostro paese abbia ripreso fiato a pieni polmoni quella corrente di pensiero, tutt’altro che minoritaria, che pensa che salvare ogni azienda decotta sia un modo per lottare contro un’improbabile “austerità”, e che politiche attive del lavoro debbano passare in primo luogo dal mantenimento in vita di aziende zombie, come alcuni decenni addietro, quando abbiamo posto le basi del nostro declino distruggendo risorse fiscali.

E piuttosto velleitario, per usare un eufemismo, pensare di trovare alleanze tra i paesi europei per produrre flussi di trasferimento verso i settori declinanti del nostro paese. L’alternativa all’ovvio rigetto di tali richieste non è quella forma di nazionalismo straccione in cui la nostra destra si è specializzata da tempo, affiancandosi a una sinistra che non riesce a liberarsi a sua volta della “sindrome dell’imbalsamazione” e che vede in ogni chiusura di impresa un intollerabile affronto che il “neoliberismo” infligge all’umanità.

Dalla mentalità protezionistica dell’esistente discendono anche gli approcci di coinvolgimento della nostra intelligence a “difesa” delle nostre imprese strategiche o presunte tali dalla cupidigia di acquirenti esteri. Non si deve essere naif al punto da ignorare che la dialettica europea oscilli costantemente tra cooperazione e competizione. La risposta difensiva non risiede tuttavia nell’imposizione pavloviana di vincoli alle acquisizioni estere di aziende italiane. In primo luogo, perché abbiamo sotto gli occhi numerosi esempi di aziende italiane a controllo estero che prosperano, creano occupazione e pagano le tasse in italia. Ma soprattutto, perché questo approccio finisce col rappresentare un alibi alla protezione di aziende morenti. Il caso Alitalia è paradigmatico in tal senso, con la surreale mitologia del “rapimento” di turisti stranieri, dirottati verso altre destinazioni europee.

Ma anche la patriottica difesa del risparmio italiano dalle brame di banche estere entra a pieno diritto in questo ricco filone di vittimismo e protezionismo. Che arriva al punto da lamentarsi del sano principio di diversificazione internazionale degli investimenti e di scordare che i capitali cercano opportunità di impiego e che sarebbe forse consigliabile creare tali opportunità nel nostro paese anziché immaginare reperti archeologici del passato, quali il vincolo di portafoglio, per ostacolare la ricerca di tali opportunità oltre confine.

Mario Draghi non potrà invertire queste tendenze, per evidenti limiti temporali al suo operato e perché non è dotato di poteri soprannaturali, quando il mainstream culturale di un paese va in direzione opposta: quella della imbalsamazione dell’esistente e di un tossico nazionalismo mendicante che promette un futuro di impoverimento. Ma sarebbe già molto se riuscisse a frenarne la distruttiva inerzia.

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