A Porto, in occasione del social summit dell’Unione europea, il primo ministro Draghi ha insistito sull’importanza di lottare contro la disuguaglianza e ha proposto di rendere Sure – una misura temporanea di sostegno al reddito Ue volta alla mitigazione dei rischi di disoccupazione in contesti di emergenza – un intervento permanente. Sure ha indubbiamente rappresentato un passo in avanti nel contenimento degli effetti pandemici sulla disoccupazione; tuttavia, non può costituire l’unica leva per contrastare in modo serio ed efficace la disuguaglianza economica.

Draghi non è il solo a lanciare un grido d’allarme: da più parti, e da tempo, si è denunciata una situazione insostenibile, aggravata dall’ampiezza e dalla durata della crisi sanitaria. Tuttavia, alla crescente convergenza sulla diagnosi di un eccesso di disuguaglianza, non ha ancora fatto seguito una prognosi condivisa e di facile realizzazione. Data la gravità della situazione, la proposta di Draghi rischia di rappresentare solo un palliativo coordinato dalle istituzioni europee. È necessario spingersi oltre. E non solo a livello europeo.

Perché mai non si affronta la questione a livello nazionale? Nel corso degli ultimi anni i divari di ricchezza nel nostro Paese si sono accentuati: il rapporto 2020 del CENSIS ricorda come in Italia vivano 1.496.000 individui, pari al 3 per cento degli italiani adulti, che possiedono il 34 per cento della ricchezza italiana. Perché non aggredire il problema in modo radicale, cominciando a redistribuire la ricchezza a livello nazionale?

Un’imposta nazionale straordinaria sulla ricchezza delle italiane e degli italiani (INSRI) potrebbe costituire una prima boccata di ossigeno, una finestra aperta su una nuova Italia meno diseguale, una speranza per chi è stato messo in grave difficoltà dalla pandemia.

Le ipotesi di imposte sul patrimonio che circolano sono diverse e non è questa la sede appropriata per analizzarle in dettaglio; tuttavia, a puro titolo esemplificativo, considerando un’imposta straordinaria pari al 5 per cento del patrimonio – rivolta esclusivamente al 3 per cento più ricco della popolazione – si garantirebbe un gettito di oltre 70 miliardi di euro utilizzabili per rafforzare il reddito di cittadinanza (opportunamente ripensato), il reddito di emergenza e sostenere lavoratrici e lavoratori a basso reddito. Interventi che consentirebbero di contrastare in modo serio ed efficace la disuguaglianza economica.

La pandemia ha ampliato il divario tra ricchi e poveri, colpendo di più chi ha meno. E ciò non può essere tollerato da parte di un governo il cui primo ministro sottolinea l’importanza della lotta alla disuguaglianza. Tale intervento, peraltro, avrebbe un effetto benefico sul rilancio dell’economia, data la nota maggiore propensione all’acquisto delle persone meno abbienti. Si tratterebbe, quindi, di un provvedimento che porterebbe vantaggi a tutta la popolazione e richiederebbe una sorta di contributo di solidarietà al 3 per cento arricchitosi nel corso dell’ultimo anno. Una misura ispirata da un sano principio di giustizia sociale (secondo alcuni) oppure da mero buon senso (come direbbero altri). Un gioco a somma positiva, che avrebbe tra l’altro il vantaggio di mostrare ai partner europei che l’Italia è perfettamente in grado di fare ‘la propria parte’ e che il piano nazionale di ripresa e di resilienza costituisce solo un tassello di un mosaico di interventi più articolato e robusto. Un modo per dire ad alta voce che l’Italia volta pagina e dichiara (sul serio) guerra alla disuguaglianza.

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