«Il governo c’è fin quando fa». Le dimissioni di Draghi la scorsa settimana erano motivate dalla convinzione che le convulsioni di quel che rimane del Movimento Cinque stelle impedissero la prosecuzione dell’azione di governo.

Sbagliano tutti colore che attribuiscono grande, addirittura decisiva importanza ad uno scontro di personalità Draghi contro Conte (incidentalmente, non c’è partita).

Probabilmente, l’assolutamente straordinaria mobilitazione in Italia e all’estero a favore della permanenza di Draghi a palazzo Chigi, che ha certamente e comprensibilmente lusingato il presidente del Consiglio, non è che uno dei fattori di cui tenere conto per uscire da questa brutta situazione.

Da un lato, molto conteranno le risposte al discorso con il quale Draghi spiegherà ai parlamentari e all’opinione pubblica italiana e straniera la sua posizione.

Ai fatti che elencherà e alle interpretazioni che con sobrietà e precisione accompagneranno quei fatti, i capipartito non potranno contrappore solo retorica e mozioni di irricevibili e ipocriti amorosi sensi.

La soluzione della crisi sta anche negli impegni che, in modo credibile, i capipartito e i loro rappresentanti sono disposti ad assumersi.

Quella di Draghi non sarà affatto una richiesta di pieni poteri, ma di assunzione condivisa, nel rispetto dei ruoli, della responsabilità a portare a compimento tutto il programma concordato, anche alcuni dei punti formulati dai Cinque Stelle, già in stato di attuazione.

Credo sia legittimo che Draghi mantenga più di una perplessità su quanto i leader dei partiti prometteranno e che nutra qualche preoccupazione sulla possibilità che qualcuno di loro intenda comunque procedere a episodi di guerriglia parlamentare e mediatica.

Dall’altro lato, Draghi è perfettamente consapevole che è stato chiamato a risolvere con le sue competenze, la sua autorevolezza e il suo prestigio internazionale compiti che nessuno dei politici italiani era minimamente in grado di affrontare.

All’ombra del governo Draghi quei politici avrebbero dovuto dedicarsi alla rivitalizzazione delle loro organizzazioni e al ripensamento delle loro culture politiche.

Non essendo avvenuto nulla di tutto questo, Draghi teme giustamente che se dovesse porre termine alla sua esperienza di governo adesso, il paese intero, il “sistema paese” tornerebbe indietro e non riuscirebbe neppure a mettere a buon frutto le riforme fatte, meno che mai completare quelle già lanciate.

Non sarà, dunque, soltanto il senso dello Stato che lo spingerà a mantenere le redini del governo, ma senza esagerazioni (che lo farebbero sorridere) la convinzione che nelle condizioni date, in Italia e in Europa, ha il dovere “repubblicano” di non destabilizzare, ma di consolidare.

Pertanto, consapevolmente, accetterà il rischio di rimanere a Palazzo Chigi. Per fare.

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