Mentre il governo si attribuisce meriti che non ha per la crescita dell’occupazione, continua la marcia all’insù della povertà, di cui non si parla. Ce lo ricorda l’Istat con gli ultimi dati presentati qualche giorno fa. La povertà assoluta sale ancora, seppure di poco. Nel 2014, dopo la grande crisi economica, colpiva il 6,9 per cento delle famiglie, nel 2023 è arrivata al 9,8. Ciò vuol dire che abbiamo circa 2 milioni e 200mila famiglie coinvolte, mentre a livello individuale il fenomeno interessa oltre 5 milioni e 700mila persone. D’altra parte, i dati forniti dalla Ue ci pongono al secondo posto in Europa per le persone “a rischio povertà”, a un soffio dalla Spagna. Perché l’Italia ha questo triste primato?

Come suggeriscono in una bella ricerca Chiara Saraceno, David Benassi ed Enrica Morlicchio (La povertà in Italia), le cause sono molteplici e devono essere colte nella loro interdipendenza; quindi, come uno specifico “regime di povertà” che prende forma tra condizioni economiche e sociali di lungo periodo e sistema pubblico di protezione sociale. Tra le prime vanno certo considerate l’irrisolta questione del Mezzogiorno (dove il fenomeno è particolarmente concentrato), il peso delle piccolissime imprese e dei servizi a bassa qualificazione, insieme alla diffusione dell’economia sommersa e del lavoro nero.

Un’altra specificità italiana è il basso tasso di occupazione femminile (il più basso tra i grandi paesi europei) che a sua volta porta a una maggiore presenza di famiglie monoreddito più esposte alla povertà e quindi di lavoro povero, e alla forte incidenza di minori in condizioni di povertà (un’altra preoccupante specificità del nostro paese). Per non dire del carico di problemi di cura (bambini, anziani, non autosufficienti) che si riversano sulle famiglie e sulle donne.

Il welfare

Questo ci porta all’altra questione centrale: l’inadeguatezza del nostro sistema di welfare a fronte di condizioni economiche e sociali che aggravano particolarmente la domanda di protezione sociale. Qui, di nuovo, il confronto con altri paesi europei e i dati Ue possono aiutarci. Ci fanno infatti intravedere meglio una sorta di paradosso della povertà: siamo tra i paesi che spendono di più per l’esclusione sociale, ma abbiamo i livelli più elevati di povertà.

Per far fronte in modo più adeguato al problema della povertà (come del resto a quello delle disuguaglianze più generali che sono da noi particolarmente forti) non dobbiamo pensare che il problema principale sia quello di fare crescere la spesa.

Spendiamo già non poco, ma spendiamo male, e questo può spiegare la differenza di risultato con altri paesi. Non abbiamo avuto un reddito minimo per i poveri – diffuso in molti paesi – fino all’introduzione del Reddito di cittadinanza (ora sostituito dall’Assegno di inclusione, di cui si sa già che non sarà sufficiente).

In genere, la protezione sociale ha proceduto in modo particolaristico e frammentato sulla base delle condizioni occupazionali più che di criteri universalistici, preferendo trasferimenti monetari a servizi pubblici. Siamo ai livelli più bassi per investimenti in politiche attive del lavoro, in politiche di conciliazione e in servizi per l’infanzia (asili nido).

La verità è che più in generale abbiamo avuto una redistribuzione perversa: volumi di spesa in percentuale del Pil vicini a quelli dei paesi nordici e continentali, ma livelli di povertà e di disuguaglianza più simili a quelli di paesi, come gli Stati Unititi e la Gran Bretagna, dove si spende meno. Ciò è dovuto al fatto che il welfare e il fisco sono diventati strumenti primari di un consenso politico particolaristico.

Non esiste dunque una ricetta unica per contrastare la povertà. Bisogna agire a monte e a valle. Certo, è importante un reddito minimo che funzioni. Ma occorre guardare anche al tasso di occupazione femminile, ai servizi per sgravare donne e famiglie, alle politiche attive del lavoro e al salario minimo, senza perdere di vista le politiche industriali volte a favorire lo spostamento dell’apparato produttivo verso l’alto che permette salari più alti.

E tutto questo richiede un sistema fiscale che funzioni e sia ispirato a criteri universalistici e di progressività (altro che flat tax!). Insomma, la povertà e le disuguaglianze sono come le parti di un motore. Non si può modificarle efficacemente senza cambiare il funzionamento di altre parti, e senza favorirne l’integrazione complessiva. Quindi non bisognerebbe essere schiacciati sulla “veduta corta” e sulle prossime elezioni. Ci vogliono un progetto e un programma.

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