La vittoria di Alessandra Todde e della sinistra in Sardegna, data da addetti ai lavori per “impossibile” fino a qualche giorno fa, pur nei limiti di un voto che resta regionale, fa crollare un assioma che in troppi davano ormai per scontato: la destra di Giorgia Meloni non è affatto imbattibile, se le opposizioni riescono a trovare candidati credibili e se allargano l'alleanza proponendo nel contempo programmi plausibili.

Una rondine non fa primavera, ma è innegabile che il voto sardo segnali la fine della luna di miele tra la destra e il paese – dopo un anno e mezzo di pessimo governo – e che lo stesso avrà effetti politici sulla maggioranza, che torna dall'isola malconcia e spaccata come mai era accaduto dal 25 settembre di due anni fa.

Il primo campanello d’allarme

La premier ha imposto personalmente il candidato perdente. E ha deciso di personalizzare la tenzone, mettendo la sua faccia su tutti gli autobus tra Cagliari e Sassari e sulla fine della campagna elettorale: è lei la grande sconfitta della tornata, è per lei che squilla il primo campanello d'allarme sul tema – per lei sensibilissimo – del consenso.

Non solo. La scelta scellerata di indicare Paolo Truzzu (considerato dai sondaggi uno dei sindaci meno amati d'Italia) evidenzia debolezze politiche che si riverberano pari pari anche sul continente: la cronica assenza dentro Fratelli d’Italia di una classe dirigente spendibile va di pari passo con la volontà, ferrea, di pescare candidati esclusivamente tra fedelissimi e seguaci. Un paradosso a cui in politica è difficile, alla lunga, non pagare pegno.

Meloni ha perso la sua scommessa e contemporaneamente è riuscita a rovinare i rapporti già infetti con la Lega di Salvini, che con ogni probabilità da ieri sera starà festeggiando a champagne e mirto: umiliato sulla defenestrazione del “suo” Christian Solinas, governatore uscente indagato per corruzione, e pochi giorni fa sul terzo mandato, in molti sostengono che la sconfitta sia figlia pure del voto disgiunto dei leghisti, ridotti tra l'altro come partito a percentuali residuali.

Sia vero o meno un complotto salviniano, tra le forze dell'estrema destra veleni e sospetti incrociati cominciano a essere troppi: se Meloni non troverà nuovi equilibri per migliorare i rapporti con gli alleati, assicurare una navigazione tranquilla al governo fino alla fine della legislatura sarà arduo. Soprattutto se le divisioni dovessero portare nuovi rovesci su altre elezioni date già per vinte, ma da oggi meno scontate: quella in Abruzzo, dove si gioca la riconferma il meloniano Marco Marsilio, e l’altra in Basilicata, regione in cui la maggioranza sta ancora litigando sul candidato (manche a sinistra non sono messi benissimo).

L’unica via

Dall'altro lato il blitz inatteso di Todde dimostra che l'unica via che l'opposizione può percorrere se vuole essere competitiva resta il campo largo. Elly Schlein ha vinto la sua scommessa appoggiando – come a Foggia – un pretendente scelto da Giuseppe Conte, ma aver abbozzato in nome dell'unità della coalizione ha pagato. Non era affatto facile, visto il tentativo di boicottaggio dell'ex dem Renato Soru. La speranza della segretaria adesso è che l'alchimia tra Pd e M5s funzioni anche a parti inverse alle prossime sfide locali: vittorie ravvicinate darebbero un booster non banale per il big match dell'8 e 9 giusto.

Il problema, per il Pd e per chi crede che una larga alleanza riformista sia l'unica opzione vincente contro le destre, è che Conte – vero trionfatore del voto sardo – non è affatto un partner affidabile e coerente: finora ha dato lui le carte, accettando a macchia di leopardo solo le soluzioni a lui più convenienti. Qualcuno al Nazareno sostiene che dopo le europee il camaleontico professore arriverà a più miti consigli. Speriamo abbia ragione: perché a destra quando il gioco si fa duro il patto per il potere scalza ogni alterco, almeno per un po'. Mentre a sinistra il masochismo resta ancora uno dei passatempi preferiti.

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