In fondo ogni catastrofe ha i narratori che si merita. Bisognerebbe partire da qui – e auspicabilmente restarci – per non cedere alla tentazione di trasformare una seria questione culturale in ciò a cui la narrazione di Elkann l’ha ridotta, una semplice nota pittoresca.

Ci sono epoche in cui le crisi sono state narrate – mi limito a due nomi – da Zweig e da Musil. Anche Elkann avrebbe voluto raccontarci di un mondo di ieri che va in frantumi, di una catastrofe culturale e sociale in atto. Ma, appunto, egli non c’entra nulla con Zweig e con Musil. Questi ultimi sono stati testimoni di una catastrofe che non hanno prodotto ma che hanno subito. Non si sono sdegnati, hanno cercato di riconoscerne i tratti, le genealogie, le cause profonde.

Non era dal loro presente che ci mettevano in guardia, ma dal futuro che si appalesava e verso cui nessuno sembrava più assumersi la responsabilità. Scriveva Musil: «Solo le metafore contano. Ciò che le cose sono, questo è il mondo normale degli uomini normali; come le cose possono apparire, questo è il futuro».

L’indignazione di Elkann sembra incapace di metaforizzare: vede le cose come sono, non come possono apparire. È l’indignazione normale degli uomini normali, non troppo dissimile da quelli che dicono “ah dove andremo a finire signora mia”, però con la presunzione di essere del tutto eccezionale.

Tutt’al più è interessato che questo presente non entri in rotta di collisione col passato fino al punto di ignorarlo, non concedendogli la dovuta deferenza. Ma non vede in ciò che accade intorno a sé i tratti metaforici che permettono di comprendere perché siamo dentro una crisi e dove questa crisi ci sta portando.

Il testimone

Musil e Zweig erano testimoni di una catastrofe. Elkann assume la posa di testimone di una catastrofe da cui vorrebbe prendere le distanze, perché nessuno gli ha detto con chiarezza che di quella catastrofe egli è parte, ha contribuito a produrla.

Non solo perché ciò che lo costringe a una via crucis ferroviaria è un ritardo infrastrutturale dovuto anche a scelte politiche condizionate dagli interessi della famiglia cui appartiene – se solo fosse sceso dal suo pulpito per studiare la storia sociale degli ultimi decenni di questo paese – ma soprattutto perché, con buona pace di Elkann, i giovani che incontra sui treni sono i suoi figli.

In un testo fondamentale per capire la distanza tra questa sedicente classe culturale e quella di altri tempi, Il Mondo di ieri, Zweig a un certo punto ricorda che per suo padre – simbolo concreto di ciò che si stava perdendo - «la linea fondamentale rimaneva quella: godere della ricchezza in quanto la si ha, non in quanto la si mostra».

Il mondo di Elkann è invece tutto concentrato sui propri segni da mostrare. È mostrare i segni che si ottiene il prestigio: il vestito, la prima classe, Proust, i giornali, le lingue conosciute. Non c’è nulla di vero, c’è solo il mostrare dei segni. Eccola la catastrofe.

Il timore più grande di Elkann è che questi segni siano ormai sostituiti da altri segni barbari. Per me invece la catastrofe comincia da lì: da una generazione che ha trasformato il mondo sociale e culturale in un sistema di segni che non hanno altro significato che non sia quello economico della prestazione, del riconoscimento, del ritorno su di sé, dello specchio.

L’essenza della catastrofe Musil lo affidò al celebre “teorema della assenza di forma” dell’uomo nuovo che si stava annunciando. L’uomo che vive in assenza di forma è colui che non ha più contenuti e significati comuni da condividere e a cui credere.

All’uomo costretto a vivere così, non rimane che il principio economico: uno stile di vita che accetta di buon grado di vivere senza senso per esibire i propri segni, il proprio prestigio. Ma i segni non sono eterni, anch’essi appartengono al divenire della storia.

Segni sostituiscono altri segni, come le mode sostituiscono le mode e i linguaggi sostituiscono i linguaggi. La pretesa di Elkann che i suoi segni di prestigio siano ancora riconosciuti come i vessilli del potere è del tutto anti-storica. Ma non è questo il punto. Il punto è che è la stessa raffigurazione di sé che Elkann propone lo rende il colpevole di ciò che sta rimproverando a quei ragazzi.

La loro unica colpa è che stanno ereditando dagli Elkann di questo paese un mondo in cui per essere umani non si può far altro che accumulare segni su segni, condannati a rispettare il teorema musiliano dell’assenza di forma. Un mondo in cui persino la cultura è oggi una posa, un vestito ben tagliato, un libro da ostentare.

Non è affatto vero che Proust sia moralmente meglio di un cappellino nero americano, se anche lui viene ridotto a nient’altro che un segno. Nel mondo che Elkann consegna ai suoi figli Proust è un segno come un altro. Il disprezzo per Proust è il suo che l’ha ridotto a segno, non quello dei giovani che rivendicano di riempire il proprio vuoto con altri segni.

Così la funzione sociale dell’intellettuale, per dirla con uno che un articolo del genere l’avrebbe fatto oggetto di una lettera luterana (quanto manca Pasolini), non è dissimile da quella di tutte le altre élites di oggi: pretende di dominare, ma ha rinunciato a dirigere. Intellettuali che invece di indicarci dove ci porterà la catastrofe dentro cui siamo, si limitano a indignarsi perché i loro segni non sono più riconoscibili come quelli che prevalgono, che vincono, che fanno guadagnare.

La caduta di dei che accade quando il loro culto – non la loro teologia, non il loro sistema di significato - viene sostituito da un altro. Perché non c’è altro, in questa teologia cultuale di Elkann che somiglia sospettosamente al capitalismo come religione profetizzato da Benjamin.

E come Elkann quanti sono gli dei di questa cultura ridotta a culto di segni? Quanti sono gli intellettuali la cui soddisfazione non è quella di indicarci come le cose saranno, ma soltanto di essere degli idoli? La vera caduta degli dei è già avvenuta e l’hanno raccontata Zweig e Musil.

Al posto degli dei, sono arrivati gli idoli. La catastrofe di oggi non è che gli idoli cadano, ma che abbiano preso il posto degli dei senza rimorso né pentimento. E trovino persino il coraggio di scriverlo.

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