L'arrivo di Enrico Giovannini al ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti rappresenta una sorpresa e un grande punto interrogativo. Una sorpresa perché il nome dell'economista - 63 anni, romano, ministro del Lavoro nel governo Letta (2013) e prima presidente dell'Istat dal 2009 - era circolato nelle voci dei giorni scorsi per la candidatura ad altri dicasteri. Un punto interrogativo perché è per adesso ignoto il suo mandato sulla questione centrale del ruolo delle grandi opere nell'agenda del Recovery Plan.   

Giovannini ha legato la sua attività degli ultimi anni all'Alleanza per lo sviluppo sostenibile (Asvis), che organizza circa 270 istituzioni e associazioni della società civile e del terzo settore per accompagnare l'attuazione dell'Agenda per lo sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite. Argomento vasto e complesso che adesso il nuovo ministro è chiamato a declinare concretamente nella politica delle infrastrutture. Il bivio è netto. Il ministero di Porta Pia è retto fino a oggi da Paola De Micheli (Pd), interprete come tutti i suoi predecessori di un'idea di sviluppo dell'economia basata sui grandi cantieri. La parte infrastrutturale della bozza di Recovery plan che il governo Draghi eredita dal precedente prefigura investimenti per decine di miliardi di euro in nuove linee ferroviarie ad alta velocità.

Queste colate di cemento armato di controversa utilità ai fini dello sviluppo economico del futuro - a parte i benefici immediati al settore delle costruzioni - sono classificate come compatibili con lo "sviluppo sostenibile" in quanto i treni sono elettrici e non emettono gas di scarico come i camion. Giovannini dovrà indicare nei prossimi giorni se imprimerà una svolta a questa strategia pluridecennale o si manterrà nel solco della continuità. Il primo banco di prova di Giovannini sarà la redazione del Recovery plan definitivo, in cui dovrà scegliere se confermare i piani di De Micheli o dare una sterzata. La composizione della nuova maggioranza "non politica" e dello stesso governo fanno sospettare che non avrà ampi spazi di manovra e che la nascita del governo Draghi sia una vittoria per il cosiddetto "partito del cemento".

L'altro grande dossier che attende Giovannini e che è stato molto trascurato dal precedente governo, è quello del trasporto pubblico locale, uno dei punti più dolenti dell'emergenza Covid.

Nei mesi scorsi il neo ministro ha firmato un libro con l'economista Fabrizio Barca ("Quel mondo diverso") che punta il dito sui limiti del neoliberismo e sulla necessità di inventarsi qualcosa di veramente nuovo per dare ai giovani una speranza per il mondo del dopo pandemia. Barca è stato ministro per il Sud nel governo Monti e di lui si ricorda la battaglia vinta per fermare il progetto assurdo del ponte sullo stretto di Messina. Giovannini entra in un ministero che negli ultimi mesi è stato messo al lavoro da De Micheli per rispolverare studi e progetti per il cosiddetto "attraversamento stabile dello Stratto". Dovrà dare subito un'indicazione: il ponte sullo Stretto non è né urgente né decisivo ma riveste una grande importanza simbolica per capire l'orientamento del governo su materie in cui spesso la politica degli annunci risulta scollata dalla realtà.

Altri due dossier bollenti attendono Giovannini: la questione dell'Alitalia e la trattativa infinita con Atlantia per la definizione della "transazione" con il governo dopo il crollo del ponte Morandi.

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