Anche se queste feste atipiche ci ricordano che la pandemia non è dietro di noi, il dibattito politico e di politica economica si è definitivamente spostato sul dopo, quando grazie al vaccino potremo riprendere una vita normale.

Tra le eredità della crisi ci sarà l’enorme massa di moneta iniettata nell’economia dalle banche centrali.

Se ne è parlato nelle scorse settimane quando le discussioni sulla monetizzazione del debito Covid hanno messo sul tavolo l’ipotesi che una parte di questa massa monetaria resti in circolazione per una durata indefinita.

Ma che il debito sia monetizzato o meno, la domanda rimane: quanto a lungo rimarrà in circolo la liquidità immessa fin dal 2008 nel sistema?

Mentre il bilancio della Bce è aumentato del 300 per cento dal 2008 a fine 2019, il Pil dell’eurozona è aumentato solo del 9 per cento. Nel 2020, poi, il Pil si è ridotto del 7-8 per cento mentre il bilancio della Bce è ulteriormente aumentato di più del 50 per cento (ed è oggi quasi cinque volte più elevato di quanto non fosse nel 2008).

Molti temono che questa enorme massa di moneta in circolazione finirà per alimentare l’inflazione. È un timore che discende dall’applicazione un po’ meccanicistica, credo lo riconoscano anche i suoi proponenti, di un truismo (la teoria quantitativa) che lega la quantità di moneta domandata alle transazioni: se circola più denaro per acquistare lo stesso numero di beni, i prezzi non potranno che salire. Quanto sono giustificati questi timori?

Questa non è una guerra

Nel breve-medio periodo non lo sono affatto. Negli ultimi dieci anni il problema della Bce è stato, all’opposto, di far sì che la massa di moneta in circolazione non fosse tesaurizzata e si trasformasse in domanda di beni, alimentando la crescita.

Dal 2009, la Bce ha costantemente combattuto con le tendenze deflattive dell’economia, alimentate tra l’altro da politiche di bilancio troppo restrittive.

Un problema esacerbato dalla crisi del Covid: l’incertezza che ha creato una gigantesca massa di risparmio precauzionale che governi e Bce, anche a causa delle misure sanitarie di contrasto alla pandemia, non riescono a canalizzare verso la domanda di beni.

La Bce stessa, nel suo bollettino economico di dicembre, ha certificato questa situazione di domanda stagnante.

Anche nello scenario più ottimista l’inflazione rimarrà ben al di sotto dell’obiettivo del 2 per cento fino al tutto il 2023. Non basterà nemmeno il rimbalzo della crescita previsto nel 2021 e 2022 per avvicinarci al limite della capacità produttiva delle nostre economie; l’ipotesi di surriscaldamento nei prossimi anni è semplicemente fantascientifica.

Questo è uno dei motivi per cui l’analogia della pandemia con la guerra, purtroppo giustificato dalla violenza dello shock (e dal costo in vite umane) deve essere usato con cautela.

Mentre dopo una guerra la capacità produttiva è distrutta, e la ripresa della domanda diventa rapidamente inflazionistica, negli scorsi mesi lo sforzo di banche centrali e governi ha preservato, purtroppo non nella sua interezza, la capacità produttiva. La ripresa della domanda troverà il sistema produttivo pronto a fornire i beni richiesti.

Anche proiettandosi su di un orizzonte più lungo il quadro non cambia molto. Intanto per un’inerzia strutturale.

Il passato ci insegna che purtroppo il tasso di disoccupazione durante le fasi di ripresa cala molto lentamente. Inoltre, la ricerca degli ultimi anni ci mostra come i legami tra tasso di disoccupazione e inflazione (la curva di Phillips) si siano di molto attenuati, facendo venire meno uno dei canali di trasmissione tra attività economica e livello dei prezzi.

Il problema, anzi, sarà di far sì che la ripresa dell’economia si traduca in salari più elevati, cosa che in moltissimi paesi europei dopo la crisi 2010 non è successa.

La stagnazione secolare

Infine, e forse più importante, i paesi avanzati flirtano da anni con la “stagnazione secolare”, una situazione in cui il risparmio tende ad essere eccessivo e l’investimento compresso.

È questo che porta ad un’insufficienza di domanda aggregata cronica, spiegando un’inflazione che rimane strutturalmente bassa e tassi di interesse pericolosamente vicini allo zero. E che ha spinto alcuni, come l’ex capo economista del Fmi Olivier Blanchard a chiedersi se non dovremmo adottare obiettivi di inflazione più elevati.

Se la quantità di moneta in circolazione riuscisse a spingere un po’ l’inflazione, la maggior parte dei banchieri centrali lungi dal preoccuparsi farebbero festa.

Non è escluso, anzi fortemente probabile, che la ripresa dei prossimi mesi porti a fiammate dei prezzi in alcuni settori, in primo luogo quelli in cui lo sforzo di preservare la capacità produttiva ha avuto meno successo o quelli che dovrebbero soddisfare la colossale domanda di investimento nella transizione ecologica. Ma L’eliminazione dei colli di bottiglia settoriali non si combatte con la politica monetaria. Sono le politiche industriali e quelle fiscali a dover intervenire.

La sfida per le politiche monetaria e di bilancio, insomma, nei prossimi anni continuerà ad essere quella di continuare a battersi contro le tendenze deflazionistiche dell’economia.

Nessuna banca centrale (compresa la Bce) si preoccupa di fiammate inflazionistiche. E nessuno oggi ha in programma una riduzione significativa della quantità di moneta.

Dovremmo cercare di guardare al di là dei nostri confini e tenerne conto nel nostro dibattito, anche discutendo di temi complessi come la monetizzazione.

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