Ha ragione Rino Formica, lo ha appena scritto su Domani, lasciamo perdere i dettagli, «i rigagnoli malmostosi» del passato, quel pezzo (maggioritario) di elettorato che non vota per Giorgia Meloni si gioca la partita in due tempi.

Le elezioni europee del 9 giugno 2024, in felice coincidenza con i cento anni del delitto di Giacomo Matteotti (10 giugno 1924), se si vuole un punto di riferimento ideale per chi si riconosce nel grido «Viva l’Italia antifascista», eccolo qui, il deputato socialista che sfidò il regime, l’antifascista, come si intitola il bel volume di Massimo L. Salvadori, edito da Donzelli. «Un autentico capo», lo ritraeva Pietro Nenni nel suo Sei anni di guerra civile, che fu pubblicato nel 1931 in Francia e solo nel 1945 in Italia. «Un uomo risoluto, coraggioso, integro, osava sfidare la dittatura. Professava per il fascismo e per il suo capo un disprezzo assoluto. Non attendeva la vittoria da nessun miracolo, ma da un lungo sforzo del popolo e dell’azione socialista». «Matteotti intendeva il riformismo rivoluzionario come un aratro dalla lama tagliente, atta a rivoltare la dura terra», scrive Salvadori in conclusione del suo saggio. «Oggi tutti si proclamano riformisti, perfino le destre. Ma il riformismo rivoluzionario di Matteotti resta senza seguaci». Ancora più prezioso, il riformismo rivoluzionario, in una stagione di abbandono della politica, e al tempo stesso di domanda di nuova politica. In Italia e in Europa.

L’ipotesi di una candidatura di Mario Draghi alla presidenza della Commissione europea, in questa situazione di trattative estenuanti, mediazioni al ribasso, rischia di riproporre su scala europea quella che fu la principale debolezza del governo Draghi in Italia tra il 2021 e il 2022, l’ambiguità dei suoi sostenitori, che nella difficoltà hanno bisogno di una figura prestigiosa, ma non sono disponibili a fare un salto di qualità, una ambiguità ben incarnata dalla nuova specie che avanza, il sovranista-trasformista, ben incarnata dal governo italiano. A volte le mosse non riescono, come dimostra il misero dietrofront del ministro dell’Istruzione sulla nomina di Paola Concia. Ma anche per questo la sinistra «in rabbioso silenzio», di cui ha scritto Formica, o in rabbioso rumore, come le ragazze e i ragazzi scesi per la prima volta in piazza per il femminicidio di Giulia Cecchettin, aspettano una offerta di rappresentanza. Più coraggio.

Il secondo tempo, dopo le elezioni europee, sarà la parte finale della legislatura che porta al voto politico del 2027. Voto più che mai incerto, perché non se ne conoscono le regole, né sappiamo ora prevedere se esisterà ancora l’attuale Repubblica parlamentare. Non bisogna essere né riformisti né rivoluzionari per respingere in blocco il testo Meloni-Casellati. Ma l’ipotesi che invece la riforma possa passare già da ora condiziona le mosse dei principali attori politici. E il risultato è un aumento della frammentazione. Perché è evidente che se l’elezione diretta del presidente del Consiglio dovesse essere approvata con il testo attuale testo, in discussione ci sarebbe poi una legge elettorale a doppio turno collegata al premier per conquistare il 55 per cento dei seggi parlamentari.

L’effetto è la moltiplicazione dei candidati alla premiership. Difficile che uno come Matteo Salvini possa rassegnarsi fin dal primo turno a sostenere Giorgia Meloni, quando nel suo simbolo elettorale c’è ancora stampato il nome esteso del suo partito, Lega per Salvini premier. Oggi mette quasi malinconia, ma domani può tornare utile. Distinguersi e contarsi al primo turno per ritrovarsi insieme al secondo. È una tentazione che attraversa il destracentro di governo, ma soprattutto le opposizioni, dove sono in tanti a soffrire l’amaro destino del capo che si sente chiamato a un’ambizione sconfinata, che occupa un ego troppo grande per essere contenuto nel piccolo-medio partito che lo racchiude. Ecco cosa accomuna Matteo Renzi, Carlo Calenda e Giuseppe Conte: il sogno di un sistema presidenziale in cui sia possibile chiedere il voto per sé direttamente agli elettori, senza passare per spiacevoli compagni di strada o da sigle improvvisate. E il più attrezzato per questa speciale corsa a chi arriva secondo, per poi sfidare nella finalissima del primo turno il candidato, anzi, la candidata del destracentro, sembra essere al momento proprio il leader del Movimento 5 stelle. È il motivo per cui Conte rifiuta di farsi incasellare nella coalizione di centrosinistra. Il sì di Conte arriva si fa se la guida spetta a M5s, come in Sardegna, o si blocca o rallenta se il candidato è del Pd (Firenze) o un civico come il cattolico Angelo Chiorazzo in Basilicata. Conte appare in attesa, l’attesa che qualcosa cambi a livello istituzionale. A quel punto il capo dei Cinque stelle potrebbe rivolgersi agli elettori senza nessuna mediazione, come faceva da premier nelle sere del lungo lockdown, in competizione e non in alleanza con il Pd.

Tutto questo rende complicata la fin troppo paziente opera di tessitura esercitata fin qui da Elly Schlein. Che nei prossimi giorni,a cominciare dall’assemblea del 15-16 dicembre con Prodi, Gentiloni e Letta, dovrà decidere in che modo giocare i due tempi della stessa partita.

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