Le domande sono due: siamo all’inizio di una nuova crisi finanziaria globale innescata dalla Cina? Se la risposta è no, stiamo osservando la fine del modello di crescita cinese che abbiamo conosciuto in questi anni?

I fatti: la società immobiliare cinese Evergrande ha problemi di solvibilità, ha 305 miliardi di dollari di debiti (in reminbi, perché non ha obbligazioni in valuta estera) e non si sa se è in grado di onorare le scadenze più ravvicinate, i profitti sono inferiori alle attese, per racimolare cash sta venendo partecipate dal valore dubbio, come quelle nella produzione di auto elettriche, ad agosto ha presentato un profit warning per avvertire gli investitori di aspettarsi un calo dei profitti tra il 29 e il 30 per cento.

Un’altra Lehman?

Giovedì scadono obbligazioni per 83,5 miliardi di dollari e nessuno sa bene se Evergrande sarà in grado di farvi fronte. Secondo quanto riportato da Reuters, già da tempo Evergrande cerca di rimborsare parte dei suoi debiti con appartamenti e altri immobili invenduti, pur di non pagare con cash che evidentemente scarseggia. Un doppio segnale di preoccupazione: neppure la società crede nelle prospettive del mercato immobiliare ed è così disperata da pagare “in natura” per evitare che i problemi di liquidità diventino subito problemi di insolvenza.

I mercati finanziari ieri sono crollati un po’ in tutto il mondo. Sia perché da tempo erano sui massimi, persino quella di Milano stava sopra i livelli pre-Covid, e dunque una correzione al ribasso era inevitabile, visto che i prezzi sono cresciuti molto più delle prospettive del Pil. Ma la svolta al ribasso si spiega anche con i timori che dalla crisi di Evergrande possa arrivare un contagio mondiale paragonabile a quello innescato dal crac di Lehman Brothers nel 2008.

I debiti di Evergrande sono inferiori – 305 miliardi di dollari contro i 613 di Lehman nel 2008 – ma pur sempre superiori per entità all’intero debito pubblico della Nuova Zelanda sul mercato, due terzi di quello Australiano, il 13 per cento del debito pubblico italiano.

In comune con il caso Lehman c’è la volontà del governo di riferimento – oggi Pechino, allora Washington – di accompagnare l’azienda a un collasso controllato, sia per la difficoltà di un salvataggio, sia per dare un messaggio al sistema finanziario che chi sbaglia, almeno in parte, paga.

Nel 2008 non è finita bene, il panico innescato dal vedere una primaria banca americana abbandonata dal governo ha fatto salire i costi di finanziamento di tutte le altre, ha paralizzato interi mercati di titoli di credito e, alla fine, ha bloccato la finanza occidentale innescando crisi bancarie che poi hanno portato alla conversione di debiti privati in debiti pubblici con l’inevitabile crisi finanziaria degli Stati intervenuti a sostegno delle banche.

La bolla immobiliare 

In questo caso Evergrande non è così connessa al sistema finanziario globale, l’esplosione controllata dovrebbe far danni soprattutto in Cina o almeno in Asia, ma stiamo parlando comunque di un’azienda che ha 200.000 dipendenti diretti, un indotto di 3,8 milioni, 1300 progetti edilizi in 280 città in Cina, i suoi prodotti finanziari sono in mano ad almeno 40.000 famiglie, piuttosto arrabbiate ora che emergono anche gli scandali di corruzioni e favori intorno a Evergrande.

Per quanto gigantesca, Evergrande non sembra avere le caratteristiche per mettere in crisi da sola il sistema finanziario globale. Il problema è che molti investitori osservano Evegrande come lo specchio in cui si riflette lo stato di salute del modello di crescita cinese di questi anni, formidabile ma con alcune fragilità alle fondamenta.

L'Evergrande Center di Shangai (FeatureChina via AP Images)

Dopo la crisi (occidentale) del 2008, la Cina ha usato la politica monetaria e quella fiscale per stimolare la propria economia, quasi certamente anche per mascherare problemi che sarebbero emersi comunque, anche senza Lehman Brothers e il tracollo dei mutui subprime.

Da alcuni anni il Fondo monetario internazionale osserva che il mercato immobiliare è fuori controllo: nelle grandi città i prezzi delle case crescono in media del 16 per cento all’anno 82016), A Shenzen anche del 49 per cento. Il mercato dei mutui immobiliari è cresciuto di dieci volte in un decennio.

Secondo i dati della Banca mondiale, il credito fornito dal sistema bancario al settore privato (i cui confini sono oggetto di dibattito) è arrivato al 165 per cento del Pil, nel 2020 in Cina. Valori ancora lontani dal 216 per cento che si registra negli Stati Uniti, ma che indicano comunque una dipendenza sempre maggiore dell’economia cinese dal settore immobiliare, che è arrivato a valere quasi il 30 per cento del Pil, il doppio che negli Stati Uniti.

I segnali che la bolla stia scoppiando sono tanti: i costi di finanziamento di tutte le grandi aziende immobiliari stanno salendo, i bond di Evergrande vengono scambiati con un rendimento del 60 per cento, chiaro segno di quanto sono considerati rischiosi dagli investitori.

Non c’è molto da fare, si può soltanto stare a guardare per capire se la complessa costruzione finanziaria che ha spinto la crescita della Cina negli ultimi quindici anni sta iniziando a franare: banche troppo grandi, con bilanci troppo opachi, con troppi debiti nascosti, strutture proprietarie tanto barocche quanto impenetrabili che rendono impossibile stabilire chi controlla anche le aziende più grandi (è praticamente impossibile stabilire di chi sia il gigante delle comunicazioni Huawei, per esempio).

E dietro queste cortine fumogene c’è sempre la politica, che però non è un monolite come viene raccontata in Occidente, ma un sistema di potentati tra loro in selvaggia competizione. Una competizione che spesso ha generato risultati notevoli e profitti miliardari, magari non tutti leciti, ma che ora sembra vacillare per il più occidentale dei peccati, l’intreccio perverso tra settore finanziario e mercato immobiliare.

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