Ogni autore ha piacere vedendo che un suo scritto suscita discussione e commenti. È quel che è successo a me con il pezzo «Così la subcultura della globalizzazione ha creato la “fabbrica dell’ignoranza”», uscito su Domani il 2 gennaio scorso. Ripreso il giorno stesso da più trasmissioni di Radio Tre, menzionato in molti post su social diversi, l’articolo ha sollevato un vivo dibattito. Il piacere è però molto minore quando l’autore si accorge di essere stato rudemente frainteso. Anche questo è successo per il mio pezzo.
Siccome Domani mi dà l’occasione di intervenire per fare un po’ di chiarezza, richiamo rapidamente la sostanza del mio discorso. Come punto di partenza ho usato serie indagini sulle capacità cognitive basiche degli italiani dai 16 ai 65 anni (ricerca internazionale Ocse), la loro conoscenza di nozioni specifiche (date e personaggi storici, nozioni culturali di base ecc.: Rapporto Censis sulla situazione italiana 2024) e sul grado di utilizzazione di rete e social (Istat e università Cattolica). Data la qualità delle fonti, è difficile metterne in dubbio i dati.
Nell’indagine OCSE gli italiani (dall’adolescenza alla maturità) risultano ultimi in Europa per capacità di leggere e capire, fare calcoli a scopo pratico e risolvere problemi. Sono dunque, e in misura importante, tecnicamente analfabeti funzionali. Il rapporto CENSIS documenta “in tutte le fasce d’età” molte lacune più minute, incluse alcune incredibili (per esempio: il 41,1 per cento crede che l’Infinito sia di D’Annunzio; il 35,1 non esclude che Montale sia stato presidente del consiglio; per il 35,9 per cento l’Inno di Mameli è di Verdi ecc.).
Nella seconda parte dell’articolo ho proposto un’interpretazione di questi dati scoraggianti. Mi sono rifatto a un’idea che coltivo e documento da decenni, cioè che, nella formazione della cultura basica (in Italia come in altri paesi occidentali), il mondo esterno conti ormai molto più della scuola, perché è più ricco, vario, divertente e poco impegnativo.
Per fissare questa opposizione ho proposto altre volte due termini ad hoc: l’esopaideia (quel che si impara, cioè, fuori della scuola) ha ormai stravinto sull’endopaideia (la formazione che si fa dentro). Il dettaglio degli ultimi anni è che oggi lo hub, e quasi il totem, dell’esopaideia è un gadget di diabolica potenza: lo smartphone coi suoi fratelli (tablet ecc.).
Qualche dato quantitativo aiuta a capire. Dalla ricerca ISTAT ricordata prima, la diffusione di profili social risulta ormai quasi universale: ne ha almeno uno circa l’85 per cento dei ragazzi tra gli 11 e i 19; nella fascia 17-19 anni la percentuale supera il 97 per cento. Secondo indagini dell’Università Cattolica i giovani passano online in media 1/3 ore al giorno, sebbene il 40 per cento abbia avuto «esperienze negative» in rete.
Siamo insomma nel turbine di una Grande Trasformazione culturale. Scatenata dalla globalizzazione, questa si manifesta oggi come “mediasfera”: un mondo in cui i media sono dappertutto e svolgono un’enorme varietà di funzioni, lecite e illecite, con un permanente effetto di distoglimento e di distrazione.
Questa cultura ha creato da almeno due generazioni trend planetari dalla irresistibile potenza attrattiva, in particolare sui giovani, che ha distolto dalla scuola e dall’apprendimento, operando di fatto come una potente “fabbrica dell’ignoranza” (copyright Censis). Nel pezzo segnalavo anche che questi fenomeni, essendo fattori di degrado della cultura di base, stanno creando grave allarme presso i governi di vari paesi (incluso il nostro), che cominciano a cercare qualche rimedio.
Questo, più o meno, il tenore del mio pezzo. Se molti lo hanno apprezzato, d’altro lato è stato inteso da alcuni con due strane ricorrenti distorsioni. Anzitutto – si è osservato – il degrado culturale riguarderebbe semmai gli adulti e non i giovani. Difficile capire su cosa possa poggiare un’idea simile, visto che tutti i dati che ho citato si riferiscono non meno a adulti che a giovani. Qualcuno è arrivato a insinuare che “i dati possono dire quel che ti pare”.
La seconda distorsione è più perfida e personale: il mio pezzo esprimerebbe nientemeno … “odio verso i giovani” (sic), sarebbe insomma un hate speech. Questa opinione maligna e infondata è stata espressa anche da alcuni maîtres e maîtresses-à-penser dalla penna pronta, confusi da qualche ideologia che li rende ciechi agli eventi e incapaci di leggere.
Il mio pezzo non voleva fare altro che suonare, per l’ennesima volta e con l’aiuto di dati seri e convergenti, un campanello di allarme circa i pericoli cognitivi e comportamentali che corriamo tutti indistintamente (giovani e non giovani), presi nella rete come siamo. Voleva anche additare i possibili effetti di degrado della cultura diffusa del Paese – tanto più nefasti in una fase in cui la lucidità e il sapere sono risorse cruciali per orientarsi nel garbuglio del mondo che si annuncia.
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