La Confindustria non è mai contenta, ma questo spesso è un buon indicatore: se il capo degli industriali Carlo Bonomi protesta di fronte a un provvedimento da 14 miliardi di euro, significa che non ne è il principale beneficiario e che forse, per una volta, ha prevalso una logica di redistribuzione verso il basso.  

«C'è una parte che ci convince molto, che è il tentativo di sburocratizzare tutte le pratiche legate alla realizzazione dei nuovi impianti delle rinnovabili; non ci convince la parte relativa al fatto che si affrontano i temi più importanti con i bonus e gli una tantum», dice Bonomi all’indomani del decreto del governo Draghi che è passato dai 7 miliardi della vigilia ai 14 approvati in Consiglio dei ministri nella tarda serata di lunedì.

La misura di quel decreto indica la percezione della gravità di questa crisi da parte del governo: anche in un contesto dove il debito è tornato un problema, con la Federal Reserve che oggi potrebbe iniziare una serie di bruschi rialzi dei tassi con effetti che arrivano in Europa, Draghi sceglie misure di politica economica quasi da tempo di Covid.

Il perché lo ha spiegato nel suo discorso davanti al Parlamento europeo: 105.00 rifugiati ucraini sono già arrivati in Italia, avanguardia di migrazioni ben più massicce se si materializzerà la crisi alimentare («Secondo la FAO, 13 milioni di persone in più potrebbero soffrire la fame tra il 2022 e il 2026 a causa della guerra in Ucraina»). E le famiglie italiani si confrontano con un contesto reso drammatico dai prezzi dell’energia, la cui corsa era peraltro iniziata ben prima della guerra: il prezzo del petrolio che a gennaio stava tra 70 e 90 dollari al barile, oggi è intorno a 105,  il prezzo del gas sul mercato europeo sta sopra i 100 euro per megawatt ora, cinque volte quello del 2021.

In questo contesto non si possono sprecare risorse, quelle disponibili vanno indirizzate verso chi ne ha più bisogno. Non soltanto per ragioni di equità, ma perché se il problema è l’inflazione dare soldi alle persone sbagliate peggiora il problema (cioè fa aumentare i prezzi) invece che risolverlo (proteggere il potere d’acquisto delle famiglie).

Lo spreco Superbonus

Per questo ieri Draghi ha sfiorato di nuovo una crisi di maggioranza, come nella conferenza stampa di fine anno, quando ha detto che il superbonus edilizio voluto dal Movimento Cinque stelle è stato un colossale spreco di risorse: «Il costo di efficientamento è più che triplicato grazie al 110 per cento, i prezzi degli investimenti necessari per attuare le ristrutturazioni sono più che triplicati perché il 110 per cento di per sé toglie l'incentivo alla trattativa sul prezzo». 

Oltre 33 miliardi di euro buttati perché il governo Conte 2 (colpa anche del Pd, quindi) non ha considerato il problema del “terzo pagante”: se proprietario della casa e impresa si accordano sui lavori ma lo stato paga il prezzo, è inevitabile che i costi siano i massimi possibili e i benefici ambientali per euro investito minimi.

In realtà anche il governo Draghi continua a cedere alle richieste della lobby edilizia e non osa fermare la macchina dello spreco del Superbonus: il Consiglio dei ministri ha appena stabilito criteri più generosi per beneficiare dello sconto (basta il 30 per cento dei lavori fatti entro fine settembre per avere il beneficio sulle spese 2022).

Le altre misure però indicano il timore che la guerra in Ucraina abbia serie conseguenze sociali. La misura più drastica, mutuata dagli assegni spediti a casa prima da Donald Trump e poi da Joe Biden in pandemia, è quella di mandare soldi a tutti i lavoratori e pensionati con reddito inferiore a 35.000 euro.

Il ragionamento economico è che questi soldi verranno usati per affrontare in gran parte spese abituali diventate all’improvviso troppo onerose, dalla bolletta al cibo, e dunque non contribuiranno a surriscaldare l’economia e a peggiorare il problema dell’inflazione. L’intervento è una tantum, se la guerra finirà e i prezzi energetici scenderanno, forse sarà sufficiente. Segue la stessa logica il bonus sociale che riduce la bolletta per i contribuenti a più basso reddito.

Il conto delle lobby

Altre misure sono invece il chiaro prodotto di azioni di lobbying andate a buon fine e che contribuiscono a peggiorare il problema che si cerca di risolvere, perché aumentano la domanda di quell’energia fossile da cui ci vorremmo staccare e bruciano miliardi nei colli di bottiglia delle catene di fornitura inceppate dal Covid e dalla guerra. La scelta di ridurre il carico fiscale sui carburanti e dare un credito di imposta del 28 per cento agli autotrasportatori che comprano gasolio è un boomerang: la domanda resta invariata o addirittura aumenta, e così la pressione sul prezzo (in questi casi è più sensato lasciar salire il prezzo e indennizzare in altro modo, direttamente, l’azienda, specie se virtuosa in termini di tensione verso la sostenibilità ambientale).

Anche i 200 milioni di euro di contributi a fondo perduto sono un regalo per le imprese che hanno perso fatturato per la crisi: si tratta di una mancia, soldi che non basteranno per tutti e che, come spesso capita, andranno non ai soggetti più bisognosi ma a quelli meglio connessi con il ministero dello Sviluppo economico.

Che sia poi una priorità aumentare poi il tax credit per il cinema, in questo momento, è tutto da dimostrare, ma anche quella lobby è ben protetta dal ministro della Cultura Dario Franceschini.

La partita per stabilire chi pagherà il costo di un’inflazione che, secondo l’Istata, è del 6,2 per cento su base annuale è appena cominciata. Le misure che vanno soltanto alle persone a basso reddito proteggono il potere d’acquisto dei più fragili (ma non dei poverissimi, che per esempio non beneficiano del bonus per lavoratori e pensionati). Le altre peggiorano il problema, proteggono interessi di categoria e scaricano il costo sugli altri e sul debito pubblico che, a breve, sui mercati tornerà a essere guardato con grande attenzione.

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