A Gaza ci sono pochissimi testimoni su quanto accade. Anche chi ha posizioni diverse può ritrovarsi sul dovere di un’informazione indipendente
La guerra di Gaza continua a uccidere migliaia di civili innocenti, con un numero di feriti spropositato. C’è un popolo all’interno di un catino senza vie d’uscita, dove manca tutto. Le ultime cifre fornite dalle fonti ufficiali palestinesi registrano oltre 10.000 morti, di cui quasi 5.000 bambini, i feriti superano le 20mila unità.
Sono dati da capogiro non verificati, né verificabili, come non sono verificabili i target delle bombe, ovvero se siano o meno mirate su obiettivi militari, dove la strage di civili viene considerata un effetto collaterale – i famosi tunnel o come pare un’immensa città sotterranea, costruita da Hamas con le risorse destinate al popolo palestinese – né ci sono più notizie sugli ostaggi, altre vittime innocenti, la cui vita non sembra rappresentare un deterrente, anche se le trattative continuano.
A Gaza ci sono pochissimi testimoni indipendenti. La sede della France Press è stata attaccata, la Reuters, l’Agenzia di stampa inglese, che sta svolgendo un lavoro straordinario, vede diminuire le sue fonti, perché in meno di venti giorni sono stati uccisi a Gaza decine di giornalisti e film-maker palestinesi che fornivano video e notizie (35? 46? un numero comunque esagerato, anche nelle guerre che non si misurano in giorni).
Al Jazeera trasmette in modo professionale, ma è un media di stato del Qatar, dove trova ospitalità la testa politica di Hamas, sostenuta per anni dai soldi qatarini. La Bbc, che ha una platea mondiale in lingua inglese e un prestigio da difendere, si pone il problema: nella disperazione di non poter verificare le fonti, come si fa a rimanere equidistanti?
In Italia, la questione di un’informazione diretta e bilanciata sulla guerra di Gaza non è all’attenzione. La guerra è ridotta ad una partita di calcio, con i titoli dettati dal tifo dello stadio. Le parole vengono usate come pietre e si scagliano nascondendo la mano, ignorandone le conseguenze. La minaccia sale, il quadro si apre a ipotesi terrificanti e confuse. Le auspicate soluzioni diplomatiche sul dopo, trascurano il prezzo del presente.
Perché questa ricognizione sulla libertà di stampa e non sui fatti? Un focus sul tema, nell’accelerazione delle notizie, ha senso? Sì. Va detto e fatto. Siamo di fronte a diritti negati, doveri traditi, valori offesi. La nostra bellissima Costituzione lo spiega con parole semplici: «L’esercizio del diritto di libertà di stampa non può essere sottoposto ad autorizzazioni o censure».
Allora? Mentre è in corso un massacro (evitabile?) sotto gli occhi del mondo, ai giornalisti viene impedito di entrare a Gaza per fare il proprio lavoro. L’esercito israeliano blocca i valichi. Non si passa neanche dalla porta egiziana di Rafah. Hamas usa la morte. È difficile portare una telecamera in Cisgiordania. L’informazione è azzoppata, un braccio è legato dietro la schiena. E si aggiunge il buio.
Nel pieno dell’era informatica a Gaza è accaduto e riaccade che vada via la corrente e che i computer rimangano isolati nel buio, appunto, che esaspera l’angoscia. Ma sui giornali e nei salotti tv, con le luci accese, se ne parla troppo poco. Per chi ha raccontato l’orrore della guerra è frustrante, per tanti comunque è un tema che riguarda il livello di civiltà di un paese e che segnerà il domani di tutti.
Il cessate il fuoco o pause per ragioni umanitarie a Gaza, sono urgenti. Tocca insistere, benché dipenda da altri. Come cittadini e giornalisti, invece, anche in Italia, dobbiamo ritrovarci sul dovere di un’informazione approfondita e indipendente, ancora più centrale quando è in corso una guerra. Per Gaza è indispensabile.
C’è un precedente, nel 2019: invasione di terra israeliana, divieto ai giornalisti di entrare nella Striscia. La Foreign Press Association chiama in causa la Corte penale internazionale di giustizia. Dopo diversi giorni di pressione, 8 giornalisti stranieri sono autorizzati ad entrare, tornando poi serenamente nei rispettivi paesi.
Poche ore fa, sono partiti moltissimi appelli, tra i quali quelli di un’emittente francese, France 24, e di un sito di news online italiano, Unimondo. È arrivato un diluvio di firme. In tanti, sarebbero pronti ad attraversare quel confine, giornalisti di latitudini diverse, inviati italiani. Cosa vuol dire? Che bisogna riconoscersi, discuterne e dire no al silenzio.
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