Avere una maggioranza parlamentare non basta per governare. Il nodo della destra è quello della scelta dei ministri. La premier designata dovrà comporre un equilibrio che non riguarda soltanto le alchimie interne ai quattro partiti della maggioranza, la cui compattezza, peraltro, giorno dopo giorno, si riduce.

Giorgia Meloni dovrà affrontare la sfida della governabilità, che significa risolvere la questione della credibilità dei componenti del suo governo.

Opposizione

Fratelli d’Italia è stato l’unico partito ad opporsi all’esecutivo tecnico di Mario Draghi. Gli elettori l’hanno premiato per questo motivo: hanno creduto alla proposta sovranista della destra di rimettere la politica al governo del paese. Prima del voto pochi immaginavano che i vincitori avrebbero avuto bisogno di risolvere il toto-ministri individuando candidati dotati di credenziali professionali neutralizzate politicamente.

Dal giorno dopo il voto, l’impegno della leader di Fratelli d’Italia è stato costantemente diretto a rassicurare, per mostrarsi affidabile. Non solo verso l’altra parte del paese che non l’ha votata, ma anche verso le cancellerie europee più preoccupate della sua vittoria.

Cercare e ricevere il sostegno di Mario Draghi da parte di Meloni non si spiega solo col fair play di un passaggio di consegne a palazzo Chigi. Moderare i toni e i messaggi politici rispetto al passato recente (vedi il comizio in Spagna dai neofranchisti di Vox) non si giustifica soltanto perché così impone il galateo istituzionale della premiership. I precedenti della legislatura appena conclusa hanno lasciato un segno indelebile.

I veti del Quirinale

Il veto del presidente Sergio Mattarella alla nomina di Paolo Savona a ministro dell’Economia a causa del suo antieuropeismo, o la tutela offerta dal Quirinale nei confronti dei tre esecutivi che si sono susseguiti stanno a dimostrare un fatto: ogni governo della repubblica ha di fronte a sé vincoli interni ed esterni che non possono essere elusi e che il capo dello stato è pronto a presidiare.

Nel caso della destra tutto ciò significa una cosa sola: nominare esponenti tecnici nei ministeri chiave. E qui casca l’asino. Il vicolo cieco, in cui da settimane si sono cacciati i leader della nuova maggioranza, è questo: come conciliare la volontà di rimettere al centro la politica con l’esigenza di comporre un governo che comprenda non solo esponenti di partito ma anche un certo numero di ministri tecnici? Il dubbio amletico tra fedeltà al mandato elettorale e Realpolitik produce altre contraddizioni.

Anatra zoppa

Proporre al capo dello stato ministri tecnici nei dicasteri chiave – o accettare la probabile o auspicata moral suasion del Quirinale in tale direzione – finirà per rendere il futuro governo un’anatra zoppa.

Come potrebbe Giorgia Meloni governare se, ad esempio, il dicastero degli Esteri, dell’Interno o dell’Economia fossero ricoperti da civil servant che, proprio perché tecnici, risponderebbero più alla propria etica professionale o alle aspettative dei partner europei che ai diktat della destra?

Un governo siffatto, un po’ politico e un po’ tecnico, si presenterebbe fin dall’inizio come un esecutivo “sotto tutela”. Sarebbe uno schiaffo agli elettori e un’ammissione preventiva di debolezza.

Torna l’alternativa di un governo tutto politico. La coperta però è corta. La scelta di ministri di partito riaprirebbe le fratture interne alla maggioranza che, invece, la soluzione dei tecnici avrebbe il merito di ricucire.

“Parigi val bene una messa”, disse un re disposto a rinunciare al proprio credo pur di governare la Francia. Vedremo quali transazioni Giorgia Meloni accetterà pur di far durare il primo governo della destra dalla marcia su Roma.

 

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