In Italia nel 2021 il 28 per cento dei giovani tra i 25 e i 34 anni era in possesso di un titolo di formazione terziaria, un dato che posiziona il paese al penultimo posto in una Europa la cui media è del 41 per cento. Ci sono dati che sono talmente evidenti che basta enunciarli per comprendere immediatamente la loro portata e la loro gravità, purtroppo questo capita spesso quando si analizzano le performance italiane in materia di istruzione e formazione.

In questo caso la fonte è Eurostat e vengono presi in considerazione i titoli di laurea triennale, magistrale, master, dottorato ma anche i diplomi degli Istituti tecnici superiori. Uno scenario che appare desolante, ancora di più se si considera che l’obiettivo europeo per il 2030 del 45 per cento è lontano, per l’Italia, di 17 punti.

Il mismatch

Non si tratta solo di un dato che descrive una situazione di arretratezza e di scarsa qualificazione del capitale umano, ma è anche un dato che aiuta a leggere da un punto di vista diverso quel mismatch del quale si è tornati molto a parlare negli ultimi tempi. Ci si è infatti concentrati sul disallineamento tra domanda e offerta di lavoro delle figure medio-basse, come spesso accade all’apertura del periodo estivo, con i colli di bottiglia che si generano nella ricerca dei lavoratori stagionali. Disallineamento che risente di stipendi bassi per lavori a basso valore aggiunto, di diffuse irregolarità contrattuali ma anche generato da lavori la cui desiderabilità appare essere in calo negli ultimi anni.

Ma c’è anche tutto un insieme di lavori a maggior livello di qualificazione per i quali non si trovano lavoratori proprio per l’assenza di profili preparati, e il dato di cui stiamo parlando sembra confermare una delle cause. Questi profili in alcuni casi non esistono tout court, perché non sono stati formati. Sarebbe però troppo semplice invocare una pur auspicabile crescita del tasso di laureati come soluzione a questo problema. Sappiamo d’altra parte come in Italia il tasso di occupazione dei laureati sia all’ultimo posto in Europa e come il fenomeno della sovra-educazione, ossia di coloro che svolgono lavori che richiedono un livello di competenze inferiore rispetto a quelle per cui hanno studiato, sia molto frequente.

Il tema non è solo quantitativo ma anche e soprattutto qualitativo, sia rispetto ai percorsi formativi sia rispetto alla domanda di lavoro. Il rischio di un circolo vizioso è evidente: una domanda di lavoro poco qualificato, tipica di ampie fette del tessuto produttivo italiano che non investono in innovazione e competono sul costo del lavoro, non genererà risposte per un’offerta di laureati anche molto preparati, ma allo stesso tempo la presenza di laureati in ambiti tematici distanti dalla domanda del mercato scoraggerà a intraprendere questi percorsi. Di fronte a questo può apparire scontato richiamare la necessità di generare investimenti in innovazione nel paese, così come quella di un ripensamento della didattica all’interno delle università. Ma c’è un ulteriore nodo ci cui si parla poco.

Molti paesi europei raggiungono percentuali più alte rispetto all’Italia perché hanno una componente professionalizzante all'interno della formazione terziaria molto più diffusa. In Italia sul fronte della diffusione degli Its (la cui riforma è ora in discussione), delle lauree professionalizzanti, e dell’integrazione tra i due canali, c’è ancora molto da fare. Proprio questi strumenti potrebbero essere dei paracaduti per coloro (circa 500mila studenti ogni anno) che iniziano un percorso universitario, con la volontà quindi di un ulteriore periodo formativo, ma abbandonano per vari motivi. Si potrebbe partire da qui.

© Riproduzione riservata